Ultimo stadio
- Autore: Francesco Negri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
Ultimo stadio è un esordio letterario appena pubblicato da TransEuropa Edizioni, con cui il milanese Francesco Negri (classe 1994) si affaccia con sorprendente maturità alla narrativa contemporanea. Un esperimento romanzesco fuori dagli schemi, il suo, che applica il sampling musicale alla scrittura, servendosi quindi di
"Parole, cadenze, frammenti, frasi o interi capoversi campionati da scritture altrui. Si tratterà di brani letterari, filosofici e giornalistici. Ma anche di pezzi musicali, film, programmi televisivi, articoli online, blog, stati Facebook, tweet e messaggi WhatsApp. Alcune interpolazioni saranno vistose, altre nascoste all’interno del materiale originale".
La vicenda è complessa da identificare fin da subito, ma proprio per questo attraente e sfaccettata. Il protagonista è Tommaso, un adolescente che traduce versioni dal greco al liceo classico e poi mangia un kebab e va in Curva Est a San Siro per a gridare furente durante il derby di Zapata, in una contaminazione di generi e di aspettative che non può che essere la figlia legittima dei nostri tempi. Nella periferia ambrosiana, tra un volo pindarico e l’altro, si muovono insieme a lui Ahmed e Icce: il loro è un mondo fatto di coltelli e di soprannomi quasi cabalistici, grazie a cui sopravvivere mentre ci si sposta in metropolitana o si arriva fino a Genova.
Una voce fuori campo sempre conturbante, che non mostra né compiacenza né segnali di gentrificazione, la banalità dell’esperienza si accosta e precede gli episodi più sublimi, in una danse macabre di opposti che si cercano e si schivano: l’evoluzione delle loro scelte, infatti, non sempre va di pari passo con il progresso tecnologico e con le tendenze collettive, anche se prende comunque un sentiero asfaltato e tristemente replicabile. È così che, tra un iPhone in tasca e i discorsi di Papa Woytiła riascoltati su YouTube, si piazzano farmaci e serate violente, che sembrano sempre esporre la vista di chi legge alla vertigine della solitudine.
Senza dubbio è faticoso risultare credibile in un simile labirinto di episodi, eppure Negri non smette di esserlo nelle 286 che compongono il volume. Se ci riesce, probabilmente, è perché spiegare o convincere non è nelle sue intenzioni: sa di raccontare con autenticità, e la sua convinzione è contagiosa. Per di più, i riferimenti di cui si serve sono precisi, inappuntabili: non sembrano costruire il profilo di un romanzo, quanto piuttosto quello di un incontro fra amici, in cui sarebbe impossibile mettere in dubbio perfino la più allucinante delle situazioni. Nel suo modo di procedere non c’è spazio per le opinioni, la lettura è un flusso di episodi che si specchiano a vicenda su piani temporali diversi e sovrapposti, mentre si intravede un’ombra nostalgia sullo fondo e, in primo piano, qualcosa a metà fra la rabbia e la ribellione.
La denuncia sociale che ne viene fuori si fa dunque schietta e incisiva perché anche lei è sotterranea, quasi casuale, collaterale: man mano che ci si interroga sull’una o sull’altra tematica, ricombinando certi pattern per mescolarne in maniera nuova gli elementi costitutivi, la voce narrante è infatti già saltata in avanti a bucherellare un altro velo di Maya. Più si procede e più si capisce, di conseguenza, che l’intera operazione consiste nel prendere uno spaccato di società e vedere come marcisce man mano che ci si avvicina al suo cuore e che il tempo passa. Non per niente, nonostante la vicinanza degli eventi trattati e la loro tangibilità, la storia è spesso descritta al passato remoto o addirittura al condizionale passato, il che pone una distanza quasi fiabesca tra il momento presente e quello del romanzo, ovattandone in parte la ferocia.
Il controllo della materia trattata, in altre parole, è estremo e stupefacente – in questo caso non per via degli oppiacei – e la giovane età del protagonista è l’ennesimo elemento di credibilità e coinvolgimento istantaneo. Quest’ultimo ha una conoscenza profonda di argomenti che a volte nomina soltanto en passant: cita leggi puntuali, suggerisce analisi sociopolitiche, sembra capire più di quello che sostiene, e conosce le mode e i loro talloni d’Achille come se avesse il doppio dei suoi anni. In alcuni passaggi ricorda certi testi di Vasco Brondi, in altri la sfrontatezza di Irvine Welsh o di Anthony Burgess.
Quanto al ritmo, già scandito di per sé con la precisione di un metronomo, si popola effettivamente di stralci di opere terze, che affiorano qua e là come fiori selvatici: colonne sonore o letterarie di altre vite che non serve nemmeno interpretare o citare, ma che accompagnano i pensieri e i discorsi dei personaggi come leitmotiv. Di tanto in tanto appaiono anche haiku o riferimenti a Salinger, e poi pugni sul naso e un altro sulla pancia quando si scende dal treno, che non hanno alcuna attinenza tra di loro e che proprio per questo sortiscono un effetto straordinario – come a dire: si può volere bene alla letteratura e alla violenza in modi molto simili.
Perfino la prosa in sé, al di là della trama, sembra scontrosa, sfuggente: un continuum con addensamenti, in cui le macchie di colore principali non sempre coincidono con i momenti più illuminanti dell’esistenza di Tommaso, Icce e Ahmed. Fra l’altro, così come non è presente lo straccio di un’etichetta, in Ultimo stadio non esiste neppure una netiquette: bestemmie e baci diventano inquilini dello stesso carcere, mentre la vicenda scivola verso il finale con la stessa tagliente rapidità di una biglia su un piano inclinato. Da leggere tutta d’un fiato, con la consapevolezza che lungo la strada non sempre si troverà un buon motivo per sorridere dall’alto della propria moralità.
“Amo le armi da fuoco. Mettono ordine al caos, trasformano il linguaggio in sangue. Basta entrare in un supermarket col passamontagna calato e puntare la pistola sulla cassiera. «Questa è una rapina.» Ed ecco: quella è una rapina. Il tempo gocciola viscoso, il volume dell’universo si azzera. Fare l’amore con Bianca era simile. Lo sciogliersi d’un aspirina C. Iniziavo a sfaldarmi ai bordi, lentamente; poi a ritmo maggiore, in bolle effervescenti di coscienza che si addensavano sulla superficie vitrea della realtà. Infine il suono frizzante delle ultime particelle subacquee, agitate dal vento in una tempesta sottomarina. E il nulla: ogni confine col mondo scomparso, il corpo come il riverbero vaporwave di una canzone, White Ferrari di Frank Ocean rallentata a 0.6 Hz dal Ritalin. Soltanto dentro di lei ho raggiunto lo stesso vuoto in cui mi immergo ora, mentre faccio girare Mitra con le mani sul collo e gli sbatto la testa contro le porte d’acciaio dell’ascensore. (p. 18)”
Ultimo stadio: 1
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