

Un cazzo ebreo
- Autore: Katharina Volckmer
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: La nave di Teseo
- Anno di pubblicazione: 2021
Audace il titolo, audace il linguaggio, audaci le fantasie erotiche contenute nel libro dell’esordiente Katharina Volckmer, giovane scrittrice tedesca che si è ormai stabilita a Londra. Proprio nello studio di uno psicoterapeuta londinese, il dottor Seligman, si svolge il lungo monologo con cui l’io narrante, dal lettino dell’analista, fa affiorare tutto il mondo della sua sofferente personalità, delle difficoltà che ha incontrato fin dall’infanzia a riconoscersi donna, dotata di genitali femminili, ma in perenne crisi identitaria con il suo corpo, la sua famiglia d’origine, la sua patria, la storia drammatica dalla quale proviene.
Un cazzo ebreo (La nave di Teseo, 2021, trad. Chiara Spaziani) inizia con una confessione sconvolgente:
“Una volta ho sognato di essere Hitler. Mi vergogno molto a parlarne perfino adesso”.
E così prosegue, nelle oltre cento pagine del romanzo, con affermazioni, fantasie, sogni, ricordi, rimpianti che hanno molti punti di contatto con una sessualità molto complessa, che si mescola fatalmente con la storia dell’antisemitismo tedesco di cui la voce narrante si sente inesorabilmente parte. La donna racconta al suo interlocutore muto, che conosciamo solo per le mani curatissime e una serie di fotografie incorniciate sulla sua scrivania, di aver ordinato in Giappone un robot, che chiamerà Martin, dotato di un membro di cui possa servirsi all’occorrenza per darsi piacere, senza dover ricorrere a un umano. Infatti l’uomo che ha amato, K, un pittore sposato, è stato l’amante a cui si è concessa dapprima in un bagno per uomini, poi in una serie di camere d’albergo, in una sorta di complicati giochi erotici che avevano implicato la presenza simbolica dei colori: lei si era fatta dipingere di viola l’intero corpo, lui temeva il blu perché da piccolo aveva rischiato di affogare in piscina; il rapporto fra i due guardava molto all’infanzia problematica che avevano entrambi vissuto.
Prima di Seligman la donna aveva contattato un altro analista, Jacob, ma le confessioni violente che lei gli aveva scaricato addosso avevano sconvolto lo stesso analista. Nelle pagine finali del libro, viene ricordato il nonno, capostazione pacato, ordinato, coscienzioso: dirigeva la stazione ferroviaria subito prima della fermata di Auschwitz e si preoccupava che i treni che avevano scaricato i prigionieri al ritorno fossero puliti alla perfezione. Oltre alla madre autoritaria, che avrebbe voluto una figlia bella, elegante, femminile, oltre al padre inesistente, oltre a una fratello morto prima della sua nascita, alla base delle nevrosi terribili della grossa, goffa, mascolina narratrice, c’è tutto il rimosso di un’intera nazione, che cerca ancora di fare i conti definitivi con il nazismo, i campi, gli ebrei sterminati.
Un cazzo ebreo è un libro difficile, di non sempre gradevole lettura, letterariamente molto interessante, che ci pone ancora una volta di fronte ai problemi del subconscio di una Germania, e forse di un’Europa intera, che tenta di esorcizzare i mostri che le coscienze più avvertite si portano dentro.

Un cazzo ebreo
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