La città che dimenticò di respirare
- Autore: Kenneth J. Harvey
- Genere: Fantasy
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2006
Stava lì. Nell’angolo sparuto dei libri lasciati a mezzo. Stava lì e in qualche modo soprannaturale continuava a fissarmi. Come se “La città che dimenticò di respirare” di Kenneth J. Harvey (Einaudi Stile Libero, 2006) mi lanciasse occhiate che dalla copertina piovevano dritte al mio senso di colpa (ogni libro non letto è un’occasione perduta). È andata così per anni, prima che questa estate mi decidessi a riprenderlo, spingendomi oltre le colonne d’ercole della metà a cui mi ero arreso la prima volta.
Non ne rinnego il motivo: “La città che dimenticò di respirare” è un libro congegnato a dovere ma ostico: la sua lettura risulta, per lunghi tratti, faticosa. Non scorre. Si involve. Resto dell’idea che sia un apprezzabile romanzo fantasy-apocalittico ma troppo carico di ingredienti. Il romanzo gronda. Straripa, finendo per stancare. La mole è kinghiana (oltre 500 pagine fittissime) ma il passo di Harvey è diverso da quello del Re. Sono arrivato in fondo soltanto per tacitare il rimorso di non averci provato, piuttosto che per desiderio di sapere come finiva. E tenete conto che mi piacciono i romanzi che non spiegano, i romanzi che puntano sull’evocatività fine a se stessa. Kenneth J. Harvey, a tal proposito, sa giocarsela benissimo, sfrangiando e ricompattando il piano della realtà con una naturalezza alla Lynch. E allora bastava forse sfoltire pagine e situazioni di almeno un buon terzo. Considerata anche l’accuratezza della prosa harweyana e le finalità non scopertamente commerciali di una trama il cui difetto principale, torno a dire, sta nella sovrabbondanza. Se vi va di prendere appunti fate pure, perché adesso passo all’enumerazione dei topoi volontari e involontari che sono riuscito a scovare tra le pagine di “La città che dimenticò di respirare”:
- Il topos del villaggio infestato. Funziona, e del resto si tratta di un must fanta-orrorifico. A partire da “I figli dell’invasione” (John Windham) in poi;
- Il tema del contagio virale. D’improvviso nell’isola di Terranova respirare non è più un gesto tanto naturale. Un altro punto-cardine della letteratura catastrofica che assicura brividi e tensione al prezzo di uno;
- I morti che ritornano (nella fattispecie dal mare). Rimandano all’aura de Les revenants (il serial tv) e de Il sesto senso. Soprattutto nei casi in cui a vederli è una bambina;
- I miti e le leggende di estrazione marinara. Ho contato in numero copioso epifanie di sirene, mostri giganti, squali albini, pesci dalle caratteristiche fantastiche. Per non dire, ovvio, dei fantasmi degli annegati;
- Il dono della preveggenza che secondo dottrina appartiene ai bimbi e ai puri di cuore. Vedi la piccola Robin, tipica figlioletta unica di genitori in crisi. Vedi Miss Eileen Laracy, insopportabile per via del dialetto stretto in cui si esprime. Restituito sulla pagina in un improbabile abruzzese;
- L’amore platonico (piuttosto che amor fou) a un passo dall’ossessione romantica per l’eroina fantasmatica. Claudia, nel romanzo, risulta di fatto un personaggio conturbante;
- La sovrabbondanza di elementi macabro-visionari (vecchi cadaveri spiaggiati, teste e pesci vomitati e quant’altro) e il clima di attesa che si respira nell’isola è un crossover ideale posto tra The village e L’ultima onda. Suggestiona ma alla lunga sfianca per eccesso di reiterazione;
- Il topos (un altro) della Natura umiliata & offesa che - come se non bastassero le ansie soprannaturali - si vendica mediante un maremoto degno del miglior cinema cataclismatico;
E qui sta, in fondo, il nocciolo dell’abile ambaradan messo in piedi da Kenneth J. Harvey. Il messaggino sotteso a questo romanzone di scorza surreale e di intento ecumenico-ecologista: l’iper-modernità aliena da ritmi, tradizioni, relazioni naturali. Per sfangarla urge recupero di valori autentici. Sarò ingeneroso ma dopo 530 pagine che pesano come mille, almeno la morale a tesi passatista poteva forse esserci risparmiata. Pollice verso? Diciamo indeciso (né su ne giù): “La città che dimenticò di respirare”, ora che ce l’ho fatta a finirlo, mi appare come un libro irrisolto ma non sciatto e nemmeno brutto. Se avete la forza di seguire il suo autore in questo prolisso trip di suggestioni onirico-narrative, può non dispiacere del tutto. Manca la tensione ma il clima è straniante, da fine del mondo mancata d’un soffio.
La città che dimenticò di respirare
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