La luce che pioveva
- Autore: Giuliana Zeppegno
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2022
Perché scrivere tutto questo? Perché è necessario dimenticare, lasciare andare, reinventare; ma lo è altrettanto mantenere. Per fare la pace con il passato e con tutti i passati che mi si agitano dentro.
Perché ogni vita è stupefacente.
E per altre ragioni che mi tengo per me.
Si chiude con queste parole la premessa de La luce che pioveva, romanzo d’esordio di Giuliana Zeppegno (L’Orma editore, 2022): una precisa dichiarazione d’intenti o, forse, una giustificazione, come se la scrittura fosse una colpa e necessitasse di essere espiata. Il libro che prende forma, che viene dato agli altri, consegnato allo sguardo impietoso e indiscreto dei lettori, è infatti una storia privata, intima e, allo stesso tempo, familiare come lo sono in fondo tutte le storie di vita.
C’è una figlia che si rivolge alla madre, sin dalle prime pagine, dandole del “Tu” e attraverso questo dialogo continuo e poetico, che si dipana lentamente come un gomitolo dal quale si tira piano un filo, si dischiude un intero mondo.
È la storia di una vita, quella di Maria, che è bambina nell’Italia contadina del dopoguerra e poi donna negli anni turbolenti del ’68 in un mondo in rivoluzione. Una vita minuscola che tuttavia cela un affresco di Storia - dagli anni quaranta del primo Novecento sino ai giorni nostri - allo stesso tempo personale e collettiva che ci viene raccontata tramite una prospettiva insolita e una peculiare seconda persona singolare.
La figlia racconta, con un affetto mite e mai invasivo, l’esistenza della madre intessendo un dialogo costante con lei, come se stesse componendo una lunga lettera che in realtà non è stata spedita alla destinataria.
Una memoria retroattiva
L’espressione che dà il titolo al romanzo “la luce che pioveva” è il riflesso di una memoria retroattiva, di una memoria genealogica che l’autrice ricostruisce attraverso la scrittura.
La metafora della luce che cade come pioggia rimanda al movimento fluido e inarrestabile del tempo. La luce invisibile che bagna i volti durante ogni giorno della vita sino a consegnarli lentamente all’oblio della storia, goccia a goccia, in uno stillare continuo. Giuliana Zeppegno sembra appellarsi proprio a quella luce, la luminescenza evanescente degli anni, nel ricostruire la storia di sua madre: una donna, Maria.
La scrittura allora si fa strumento di memoria, diventa arma e al contempo scudo per proteggere il passato dalla corruzione inevitabile, dallo sgretolamento continuo.
Ho voluto scrivere le cose che mi hai detto. Le storie, le fantasie, le immagini che la tua memoria ha scelto perché continuassero ad esistere nel suo lungo, oscuro, lavorio.
L’intero racconto è un tentativo di trattenere la memoria della madre, i suoi ricordi, quasi di salvarli da un vento che soffia implacabile e sembra volerli strappare via. E allora la figlia inizia il suo lavoro meticoloso, come Penelope che tesse la tela, e comincia a raccontare una “favola vera” che è capace di cullare come un canto.
Le pagine iniziali narrano l’infanzia di Maria. Una bambina nell’Italia contadina che cresce in una famiglia affollata e troppo numerosa, selvatica come una lepre che corre nei campi, addomesticata solo dal rito quotidiano della preghiera che scandisce l’operosità meticolosa delle giornate.
Il bin scandiva il tuo tempo di bambina come e più del mutare della luce: è un ricordo unico, immenso, che sono cento o mille ricordi insieme.
È mirabile il modo in cui l’autrice riesce a penetrare i ricordi della madre riportandoli sulla pagina come se li avesse vissuti lei stessa in prima persona: il livello di immedesimazione è tale da far sfumare quasi la seconda persona singolare nell’Io durante la lettura, creando una sovrapposizione affettiva potente. È come se la figlia vivesse la vita della madre, la portasse in grembo, se ne facesse carico.
Tra le righe vibra lo struggimento e la vitalità di questa bambina intelligente e allegra, le sue piccole gioie, i suoi dolori tanto vivi da essere avvertiti sulla pelle del lettore come una scottatura.
Maria cresce, si fa ragazza, poi donna: il sipario di uno spettacolo dell’oratorio si chiude sulla sua figura bambina e ce la consegna una pagina dopo, più grande, più adulta, ma ancora ignara del futuro.
Nel frattempo il lettore cresce con lei e assiste a quei piccoli, impercettibili moti che modificano il suo pensiero, il suo sguardo sul mondo. Maria è mille persone eppure è sempre la stessa nel corso della storia: scolara diligente, lavoratrice indaffarata, ragazza a un ballo che sorride insicura eppure abbagliante nella sua bellezza; e poi moglie, madre, donna che si fa carico delle esistenze degli altri, dei figli e del marito, senza tuttavia mai perdere se stessa.
Noi lettori sentiamo sulla pelle la sua fatica, la sua malinconia e anche la tristezza impalpabile di un tempo che passa e la invecchia, lentamente la ingrigisce, sfidandola in una continua partita a carte tra opportunità e rinunce, invisibili processi di addizione e sottrazione, in un cambiamento costante.
Una coscienza di donna
C’è la sua coscienza di donna che si evolve e si pone nuove domande, guarda a quanto la circonda con occhi diversi, più saggi, più consapevoli. A tratti Maria ci ricorda la madre Annina del poeta Giorgio Caproni, spiritosa e schietta che prende la vita con ironia anche quando quest’ultima non le sorride. Altre volte ci ricorda la madre di Annie Ernaux, così meravigliosamente descritta nel libro-ritratto Una donna, con la quale Maria sembra condividere l’identica tenacia, la stessa vocazione per il lavoro e la fatica retaggio di un’infanzia contadina, e poi la passione per la cultura in età adulta, l’interesse rinnovato verso le cose del mondo, i dilemmi politici e morali.
Maria è una madre che cresce assieme alla figlia, come in fondo capita a tutte le madri. Il prodigio della narrazione di Zeppegno risiede proprio in questa capacità di descrivere sua madre senza giudicarla: le dà del “Tu” mentre racconta la sua vita, ma non la giudica mai, non la rimprovera né la redarguisce, e neppure la giustifica.
Tra le pagine de La luce che pioveva Giuliana Zeppegno non indugia mai sul rapporto madre-figlia, non compone sperticati elogi della madre né rabbiose recriminazioni. Eppure è questa memoria tramandata tra madre e figlia, questo cordone ombelicale mai reciso realmente, la vera essenza del romanzo.
Un libro-dono
È come se la figlia volesse dire alla madre: “tu mi hai dato la vita e io ti tengo in vita ancora un po’, ti tengo in vita finché vivo, e se io non posso farlo ti consegno alle pagine scritte che forse avranno una vita più lunga della mia”. Il libro, il romanzo scritto, può essere dunque interpretato come un dono. Un toccante, poetico, struggente tentativo di restituire a colei che ci ha generato la stravagante e incomprensibile bellezza della vita fatta di trame sconosciute, che non sempre terminano con un punto.
Che bel gesto d’amore questo libro, e che bel viaggio nella memoria di una donna che sembra ridare vita alle nostre mamme, alle nostre nonne e alle zie, a quell’incredibile genealogia femminile che ha preceduto, come una lunga carovana chiassosa, la vita di ciascuno di noi.
Siamo fatti di storie, dopotutto, delle memorie di chi ci ha anticipato nel travagliato percorso dell’esistenza, e anche del sangue delle nostre madri, la linfa che ci ha dato la vita.
Che vertigine sentire che portiamo dentro, in qualche modo misterioso, sentimenti altrui, luoghi mai visti, lingue dimenticate. Che vertigine, e allo stesso tempo che consolazione, sapere di far parte di questa lunga storia.
La luce che pioveva
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