Ewa Lipska è nata a Cracovia, dove tuttora vive, nel 1945. Scrittrice di versi e narrativa, è molto nota in patria e all’estero, grazie alle numerose traduzioni delle sue poesie in diverse lingue. Ha trascorso gli anni politicamente difficili del suo Paese impegnandosi nella scrittura, senza aderire mai a nessun partito, ma lottando in difesa degli scrittori perseguitati o censurati, e condividendo attivamente le manifestazioni più innovative in ogni campo artistico, fino a ricoprire la carica di direttrice dell’Istituto Polacco di Cultura a Vienna dal 1991 al 1997.
La raccolta di versi appena pubblicata da Donzelli definisce già dall’originalità del titolo “Il lettore di impronte digitali” (ammiccante sia al genere poliziesco, sia all’attualità informatizzante) il carattere razionale, ironico e definitorio di queste poesie. Del cui stile possiamo dire subito che si manifesta coerentemente secco, asseverativo, puntuale in tutto il libro, scandito com’è da una paratassi rigorosa, frasi brevi e nominali, eccedenza di punti fermi, assenza di metafore e scarsa aggettivazione.
In questo suo poetare lontano da ogni retorica e sentimentalismo, vicino invece a una sobria e severa narratività, non troviamo però nessuna indulgenza verso il didascalico, anche quando l’ammonimento etico è prevalente. Lo sconcerto della poetessa di fronte all’irrazionalità dell’esistenza, alle crudeltà della storia umana, è la cifra più evidente del suo messaggio poetico:
“Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava delle nostre domande”, “Tutto era come in prova / ma ci entrava nel sangue”, “Non andrà diversamente. / Sarà così come è stato”.
L’età contemporanea, dominata dal “dio di Internet”, assediata da un ipertecnicismo disumanizzante, dalla finanziarizzazione degli scambi interpersonali (“Un mercato senza cuore”), ci costringe a un solipsismo senza scampo:
“La solitudine non ha corpo. / Neppure quando ci abbraccia. // Volteggia sopra di noi / come un aereo da ricognizione”.
Si aprono abissi di incomprensione tra le generazioni (“Gli eredi / non hanno chance”), e qualsiasi gesto affettuoso, una corsa vivace, una risata allegra, lo stesso desiderio di innamorarsi risultano bloccati da una rigidità impaurita:
“Incombe un amore gelido. / Un tempo friabile sotto cui si spacca il ghiaccio”, “Ci spogliamo. / Ci facciamo un caffè. // Tiriamo fuori una bottiglia di bourbon / e ci guardiamo / dritti / nell’abisso”.
Nella mancanza di riferimenti culturali o etici, nell’anarchia delle direttive ideologiche (“ci disperdiamo in tutte le direzioni:/ l’est va verso l’ovest / il sud verso il nord”), passato e futuro si confondono, fisica cosmologica e quantistica si contraddicono, e l’apocalisse ambientale incombe come uno spettro. Ewa Lipska tuttavia non pare né spaventata né rassegnata: denuncia lo stato attuale delle cose con analitico realismo, con asciutta consapevolezza, come in questo conclusivo appello al mondo:
“A volte sei bello. Un vestito cosmico. / Un guardaroba celestiale di paesaggi. //… Qualcuno prevede sempre la tua fine. / Non hai parenti stretti. A chi / lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso / forse ne avrebbero voglia”.
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