Il rumore delle cose che iniziano
- Autore: Evita Greco
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2016
Ha paura Ada, ha paura del demone! Sguscia furtivo sotto il letto per inghiottirla. Ha paura del trauma dell’abbandono, della ferita dell’assenza. È angoscia legata al distacco, alla separazione dalla madre:
“Una sera l’aveva messa a letto e, la mattina dopo, l’aveva lasciata dalla nonna. Aveva altro di cui occuparsi”.
Tutta la sua vita si fonda su questa esperienza, che non ha scelto di compiere, una mancanza che percepisce nel profondo della sua anima e che determina scelte, umori, reazioni e fragilità. Per lungo tempo ha rielaborato la sua “deprivazione materna” e lo fatto con le sue forze e con l’aiuto di nonna Teresa, figura di riferimento dall’alto valore umano e morale, “filtro” protettivo, fra Ada e il mondo.
Il loro è un rapporto particolare, di simbiosi mutualistica, come il fungo e la pianta, il pesce pagliaccio e l’anemone di mare, da cui traggono entrambe linfa vitale. È un amore totalizzante, reale, che impregna ogni giorno la vita di Ada, incide in essa, plasmandola, modellandola secondo i principi morali e la saggezza “millenaria” di Teresa.
Ha paura Ada! Ha paura di andare a scuola! È convinta che le persone entrino nella sua vita per andarsene: vive sulle nuvole, in un mondo ovattato da fiaba, nella sua torre d’avorio che non contempla il male, dove la felicità è nelle piccole cose, perché lei è un’anima pura o, meglio, un’anima grande, come direbbe quel giullare di Roberto Benigni; ma anche le anime grandi sono fragili, insicure, hanno paura che prima o poi le cose finiscano. Ed ecco l’escamotage, il complice gioco fra nonna e nipote per allontanare le ombre che “oscurano” il cuore di Ada, per risanare la ferita prima che la paura diventi un sogno angoscioso, un’incurabile ossessione. Allora che fare? Il segreto è nell’ascolto dei suoni, dei rumori. Quando tutto ti crolla addosso e il mondo ti volta le spalle, quando sei sull’orlo di un precipizio e giù c’è solo il burrone, il black hole che tutto ingoia, anche la luce della tua anima, e la vita si appiattisce nel nulla, allora da qualche parte si può sentire “Il rumore delle cose che iniziano”, per riconoscerle repentinamente nella loro magia e bellezza o terrificante crudeltà. Un attimo e nulla è come prima! Tutto scorre, sosteneva Eraclito, tutto fluisce. Le cose cambiano, noi cambiamo in questo eterno panta rei, basta saperne ascoltare il rumore:
“«Vedi, Ada, prima o poi le cose devono iniziare. Sono come le strade. Tu sei lì a pensare che una stia finendo, ma in realtà è un’altra che è appena cominciata (...) Devi fare attenzione al rumore delle cose che iniziano» (...) Da allora, Ada (…) aveva imparato a stare attenta. Aveva capito che le cose, quando finiscono, lo fanno in silenzio. Mentre quelle che iniziano fanno un rumore bellissimo”.
Evita Greco con un incipit intenso, toccante, intimo, ci introduce per mano nel suo romanzo d’esordio: “Il rumore delle cose che iniziano”, edito da Rizzoli nel 2016. Lo stile asciutto, dalla temperatura emotiva costantemente alta, non evolve in minimalismo; anzi è così ben strutturato da trasformare il testo in una “macchina per emozioni”, di una semplicità che volge al poetico, al sublime:
“È il bello semplice, amabile e gentile che io gusto”
direbbe l’abate Fleury. La scrittura è “potente”, piana, quasi chirurgica, frammentata in capitoli brevi. Nulla è ridondante e ampolloso, né disadorno né incolto, né c’è traccia alcuna di ostinata ricerca di ornamento. La lettura si perpetua, a mezzo di un raffinato galateo letterario, con linearità, trasparenza, spontaneità e senza ricorrere a improbabili iperboli, ne esce un’espressione lirica piena di stupore e meraviglia. Le parole fuoriescono dalle pagine danzando al ritmo ora dell’andante, ora del moderato, fino all’allegro vivacissimo del finale, investendo il lettore con un motivo che sembra ripercorrere la descrizione delle ore dell’aurora, del giorno, della sera e della notte, della celeberrima Danza delle Ore de “La Gioconda” di Ponchielli. Si muove nell’alveo del romanzo psicologico, di profonda indagine introspettiva, anche se la fabula narrativa non è affatto debole, mai banale, focalizzata sui meccanismi mentali dei personaggi, sulle loro emozioni, sui loro stati d’animo, sui loro conflitti interiori.
Evita Greco parte dal proprio vissuto più dolente, la dislessia, ma la narrazione non s’incaglia in uno sterile biografismo per aprirsi a un’ampia condivisione, a una pluralità necessaria. La Greco descrive “universi umani” lontani fra loro anni luce eppure capaci di incontrarsi, scontrarsi, intersecarsi violentemente, riconoscersi nelle loro diversità, per cercare la verità non detta, quella taciuta, e confrontarsi con essa. La trama sembra un albero il cui tronco è nonna Teresa, perno centrale intorno a cui tutto ruota; i rami sono personaggi alla continua ricerca della loro identità, di un autonomo spazio vitale. Teresa è un personaggio che colpisce dritto al cuore, per il suo coraggio, la voglia di vivere persino nella malattia, le scarpe da ballo, i rossetti:
“La cosa del rossetto era seria, perché per capire come stesse davvero sua nonna, Ada controllava se lo aveva indosso”.
i bigliettini con le citazioni, le premure e i consigli, l’albero d’ulivo simbolo del loro amore indissolubile:
“Non smetteva mai di ricordarle che doveva guardarlo, perché, anche se sembrava che non stesse cambiando, l’ulivo stava crescendo, e se lei non lo avesse guardato, sarebbe arrivato il giorno in cui non lo avrebbe più riconosciuto. E allora quello non sarebbe più stato il suo ulivo”.
La malattia della nonna catapulta Ada, con la sua aria trasognata, le sue stravaganti liste di “lavori” negli ambienti asettici ospedalieri, nel bianco delle corsie popolate da pazienti che vivono attese angosciose, il cui tempo si coniuga al presente e non al futuro:
“Tutti, lì dentro, avevano e avrebbero avuto l’aria di chi ha sentito esplodere una bomba a pochi passi da sé, senza neanche averla vista arrivare”.
Ed è qui, in mezzo a questa umanità “disperata”, che cominciano a farsi spazio due nuovi personaggi: Giulia, l’infermeria con le sue buffe cuffie, che “non spreca un solo gesto”, sempre sicura di se stessa, tenace, premurosa con i pazienti, un medico mancato di ottima famiglia, schiacciata dai silenziosi giudizi dell’algida madre:
“Giulia è un inizio. L’inizio di un’amicizia (...) il cui rumore è quello del plexiglass della parete della sala d’attesa”.
Lentamente diventeranno una luce nel buio l’una per l’altra, come se si completassero di quella parte mancante di cui la vita le ha private.
Osserva gli specchi, Ada! Osserva le immagini riflesse sui vetri! Tutto lì è più bello, fa meno paura, ha sfumature più dolci. Ed un giorno arriva Matteo, l’immagine riflessa che si materializza in uno sguardo, una margherita, un bicchiere di rum versato, in baci clandestini sotto un ponte o in un loft semi arredato, in un vecchio maglione blu da regata. È sintonia totale, affinità elettiva che investe anima e corpo, intimità viscerale radicata nell’inconscio. Ma Matteo, come Vitangelo Moscarda in “Uno, nessuno e centomila”, indossa le maschere che gli altri gli propongono, tanto da smarrire la percezione che lui ha di sé; fugge da un destino, da un futuro ”programmato” che non sente suo, perché lui, da quel treno preso tanti anni prima, è sceso da tempo, o ha perso il conto delle fermate ed ora non sa dov’è. Cerca il suo “porto quiete”, il suo baluardo, e lo trova nella solitudine di Ada, che invece, un futuro lo cerca, lo desidera, lo anela.
La morte di Teresa segna una sorta di spartiacque, fra il prima e il dopo. Le situazioni si aggrovigliano, la suspense aumenta, tutto sembra crollare “e ogni detrito è una lama”, fino al colpo di scena finale, al plot twist, che cambia la storia, che sovverte la rassegnazione, che imprime energia cinetica alla narrazione. L’epilogo è un cameo letterario, una sorta di lettera-testamento di Teresa:
“Non credere a quelli che ti dicono che il vero amore fa soffrire. Non ci credere mai. Il vero amore ti libera. Ti libera da tutto, dal dolore, e dalla tua parte peggiore (...) Ricorda però che per il vero amore serve impegno, non devi mai perdere l’attenzione. Sarà difficile, lo so. Fa sempre come con l’ulivo: continua a guardare (...). Non avere paura, se le cose banali ti fanno felice. Le cose banali hanno un pregio: il più delle volte sono vere”
che con tono intimo, quasi sottovoce, fa sobbalzare il lettore, lo coglie di sorpresa, gli riga il viso di lacrime.
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