Cristina Annino (Arezzo, 1941) negli anni ’70 aveva dato prove di sé e della sua energica tempra di poetessa pubblicando volumi con editori minori, e diverse e apprezzate plaquettes: nel 1984 era poi uscita una sua raccolta di versi nell’antologia einaudiana Nuovi Poeti Italiani 3, con prefazione di Walter Siti. Che in quell’occasione si era espresso in termini elogiativi e gratificanti sulla sua poesia:
“Non posso nascondere la mia simpatia per i testi della Annino, per quel suo ’io’ maschile molto al di là delle zone banali della nevrosi, segnato da una disarticolazione ’estatica’ che in un lampo ci mostra gli spazi e i rapporti svincolati dai pregiudizi della percezione e della personalità”
In quella pubblicazione era presente anche una mia silloge, L’appartamento, e ricordo perfettamente l’impressione che mi aveva fatto la voce perentoria di lei, senz’altro la più originale del volume, al punto che mi ero promessa di rinsanguare sul suo esempio la mia vena poetica, sempre timorosa e troppo limpida, nella decina d’anni d’età che ci dividevano (pio desiderio rimasto tale!).
Dopo molto, prolungato e regale silenzio, ora Cristina Annino pubblica da Donzelli un volume che ripropone parzialmente le poesie di allora, arricchito da altre eccezionali prove. Il carattere della sua scrittura mostra la stessa fierezza, la stessa incisività e concretezza anche dopo tre decenni: anzi, si nota qui una più consapevole adesione alla fisicità del reale, come giustamente suggerisce Maurizio Cucchi nella prefazione, e allo scontro con “il disagio e gli attriti dell’esserci”.
In queste “Anatomie in fuga” è infatti la realtà contingente del vivere (corpi, gesti, facce, dialoghi, rapporti umani, viaggi, oggetti e animali... ) che offre ai versi materia di descrizione, spesso ironica, o turbata, rabbiosa, persino disgustata:
“Giacché ogni persona / di questa vita, ogni Cosa / che incontro mi toglie identità, / mi precipita, voglio dire, mi dà crampi / di invidia e non trovo servile essere meno.”
Sì, l’invidia, l’odio, l’imperfezione, lo schifo addirittura, sono sentimenti dichiarati e privilegiati, come il disordine e la follia, l’eccesso e l’impazienza, la ribellione e il sarcasmo. Il rifiuto dell’armonia e della sana razionalità, lo sberleffo all’equilibrio e al decoro si manifestano nello stile sempre frantumato, ripido, sintatticamente incoerente. Frequentissimi gli incisi, le imprecazioni, il tono colloquiale basso, i punti esclamativi e interrogativi, le aggettivazioni stranianti, i termini isolati seguiti dal punto fermo, l’alogicità dei nessi, le sovrapposizioni e contrapposizioni.
Non si tratta di velleitario sperimentalismo, piuttosto di un’adesione istintiva agli scarti improvvisi del pensiero e dell’immaginazione.
Nei contenuti, poi, nessuna retorica, nessuna elegia, nessun descrittivismo idilliaco: mai paesaggi o panorami, nella poesia di Cristina Annino, e invece una folla di personaggi, raccontati anche sadicamente nei loro tic e difetti, con tanto di nomi veri o fittizi: Diego, Wailer, Lutri, Birghitta, Lusi, mentre il soggetto parlante si fa camaleonticamente sguardo esterno, maschile o femminile, animalesco o artificiale. E ovunque un esibito relativismo ideologico, l’assenza di qualsiasi divinità o fede, lo scherno per ogni ideologia e presa di posizione politico-culturale.
Memorabili paiono alcuni incipit
“Le poesie d’amore le do / in appalto ai droghieri”; “Ho mal di denti e mi duole la vista”; “Porto un etto di morte sulla spalla”; “Fumo albicocca; che altro?”
altrettanto memorabili certe chiuse
“Si girò con fatica di marmo “; “Ed è morta”; “Trattava Dio alla pari”; “E scende muto dalle case afflitte”.
Là dove potrebbe prendere il sopravvento una qualche tenerezza, come nello straordinario Ottetto per madre, la sterzata correttiva riporta nel giusto binario ogni tentazione di sentimentalismo per la scomparsa della “vecchia canina mamma”:
“Una donnina tutta lepre, sveglia, / s’accontenta della giornata e beve acqua / com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni / per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro!”
Per cui anche il dolore va affrontato chirurgicamente, quasi in un’asettica autopsia degli affetti:
“Fuori il sole fa foia. Ma qui! Muore / la mamma come un uccello. / Pari dignità. Bisogna / dirlo, che sta andando via. È tutta / nel becco, tutta lì, tutta vecchie / penne senza più cervello.”
Tra le signore della nostra poesia che danno lezione di polemica vitalità, di corposo anticonformismo, di aggressiva energia stilistica (in primis Cavalli, Valduga, Insana), credo che meriti una posizione di primissimo piano proprio Cristina Annino: una bella lezione di forma e sostanza a tanti versificatori più giovani, esangui e banalmente ripetitivi.
Anatomie in fuga
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