Centomila gavette di ghiaccio è un intramontabile classico della letteratura di guerra premiato al Bancarella 1963, riproposto continuamente da Mursia, in cui si narra la ritirata di Russia affrontata dalla Divisione Alpini Julia durante la Seconda guerra mondiale.
Una storia vera, vissuta in prima persona da Giulio Bedeschi come ufficiale medico, che nel romanzo prende il nome del dottor Italo Serri.
Partendo dall’Albania, attraverso la Grecia, le truppe italiane entrano in Russia. Il gelo da impazzire - con punte fino a quaranta gradi sotto zero in pieno inverno -, i congelamenti, la fame, gli stenti, gli attacchi dell’esercito russo meglio attrezzato e armato, decimano via via la colonna italiana.
E’ il racconto di una vera e propria odissea per centinaia di ragazzi mandati allo sbaraglio.
Alla propaganda, al pressapochismo, all’improvvisazione di regime fanno da contraltare lo spirito di corpo e di sacrificio degli alpini - giorni e giorni alla mercè dell’inverno russo senza neanche una scorza di rancido formaggio da succhiare-, e chi riesce a sopravvivere a quell’inferno bianco ha buone probabilità di perdere l’uso degli arti per congelamento.
Non c’è retorica in queste pagine, non ci sono eroi da mitizzare. Qui i personaggi sono poveri disgraziati catapultati in una guerra assurda, privi di mezzi - il confronto con l’equipaggiamento degli alleati della Wehrmacht emerge in modo umiliante-, in uno scenario allucinante dove uomini e muli, se non impazziscono prima o si prendono qualche proiettile, muoino assiderati.
Piegati dai morsi della fame, i militari arrivano anche a nutrirsi di impasti vomitevoli soltanto a leggerne la descrizione:
(...) l’osservò con ansia e s’avvide che il barile conteneva residui di crauti conservati. La massa era già stata rimestata di recente, Serri si chiese perché i soldati in precedenza non se ne fossero appropriati; osservandola con più cura s’avvide che quel tritume era zeppo di vermi bianchi raggrinziti e uccisi dal gelo: l’estate li aveva fatti nascere e l’inverno li aveva conservati assieme ai crauti andati a male. (...) Era gelido, insapore, ma cedeva alla pressione dei denti, e diveniva una pasta molle, nel caldo della bocca: sì, era cibo. L’inghiottì. (pag.383)
Quasi cinquecento pagine - tranquilli, non ve ne accorgerete neppure - sono lì a testimoniare la sofferenza, l’orrore, l’irrazionalità della guerra. Scopriamo piccoli e grandi atti di eroismo e di abnegazione, certo. Ma anche tante miserie umane provocate dall’istinto di sopravvivenza e fatte di meschinità, cinismo, ferocia.
Bedeschi non nasconde gli aspetti disgustosi di chi è al fronte, come la sporcizia incrostata addosso perché non si lava da settimane, o le dita di mani e piedi che si staccano incancrenite dal gelo. Niente Rambo, dunque, ma soltanto uomini, anzi ragazzi spediti nella steppa a farsi massacrare.
Bedeschi, quel maledetto inverno 1942-1943, ha curato tanti compagni di sventura in condizioni disperate senza disporre degli strumenti adatti, tra ferite purulente, cancrene, sangue. Ha sperimentato oltre mille chilometri di ritirata a piedi con la neve alta fino alle ginocchia. Accerchiati dai russi, tra ogni sorta di privazioni e assenza totale di riposo, ha assistito al suicidio di chi non ha retto più a quella situazione. No, l’autore non indora la vicenda ma ce la presenta amara e sgradevole così come è stata in realtà.
Da questo libro, Steven Spielberg o Spike Lee potrebbero sicuramente trarre ispirazione per uno dei loro film più crudi.
Centomila gavette di ghiaccio, sulla scia dei romanzi di Emilio Lussu e Mario Rigoni Stern, rende un doveroso omaggio alle migliaia di caduti.
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Un libro bellissimo,fluido e toccante al contempo,che ha il merito di descrivere la realtà senza sovrapposizioni ideologiche,ne’ autocompiacimento alcuno.
Cosa assai rara,oggigiorno :)