Chiarimenti
- Autore: Umberto Fiori
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Marcos y Marcos
Che al nome corrisponda la cosa, al segno il senso, alla forma il concetto; che parlare significhi comunicare qualcosa di oggettivo, non essere fraintesi, farsi capire: è probabilmente desiderio di tutti, destinato a venire disilluso dalla quotidianità e banalità del discorrere comune.
La chiarezza espositiva costituisce in genere l’obiettivo primario della saggistica, molto meno della narrativa, meno che mai, poi, della poesia: la quale fa della finzione, della metafora, dello straniamento il carattere peculiare della sua scrittura.
Tuttavia, esistono poeti “espositivi”, piani, che usano un linguaggio privo di artifici: fanno parte di una tradizione collaudata, secolare, dai realisti del ’200 a Saba.
Poeti il cui tratto specifico non è il gioco letterario o il lavoro sulla lingua, bensì lo sguardo che rivolgono a ciò che hanno intorno e dentro di sé. Uno sguardo da clic fotografico, intento a illuminare particolari solitamente trascurati.
Uno di questi poeti, Umberto Fiori, ha intitolato Chiarimenti (Marcos y Marcos 1996) un suo volume di versi dominati dalla volontà di illuminare con ossessiva insistenza, disarmante caparbietà, alcuni aspetti del reale.
Fiori si interroga, ad esempio, su Il discorso e la voce, sulle parole che usiamo e sono monche, inespressive, fuorvianti:
“Sono pronte, le parole.
Gli stanno in faccia
e non dicono niente”.
Sui discorsi che scambiamo tra amici, e rimangono vuoti e futili, quando non addirittura offensivi, aggressivi:
“Sempre un dunque ti aspetti / da quelle quattro chiacchiere, / una stretta finale, un chiarimento. / Invece, niente: a parte quando “era inutile, / non potevamo intenderci su niente. / Aveva poco senso tu dici, / loro travisano”;
“Anche stasera / ognuno ha detto la sua / senza che poi nessuno, / alla fine, / riuscisse a chiarire niente. / Ma solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso”;
“Dirsi quelle due cose, / con le persone, / più ci si tiene più / sembra impossibile. / A volte si sta lì davanti a loro / come i parenti al cimitero / coi fiori in mano / davanti ai marmi, alle foto”.
Questa situazione di incomunicabilità diventa disagio esistenziale, incapacità di riferirsi non solo agli altri, ma anche a se stessi:
“E intanto se lo sente, il mondo,
proprio qui,
sulla punta della lingua.
Una cosa su tre
fa un verso, gli manca il termine.
Zitto, però, non ci sa stare”.
Se le parole tradiscono, deludendo chi le ascolta e chi le dice, anche i pensieri e i gesti non corrispondono mai alle intenzioni, la realtà esteriore rimane incompresa e incomprensibile, non definibile, non riportabile a coordinate precise:
“A soffi, a onde, / il vuoto ti viene addosso. / Sentila che ti scappa tra le gambe / e ti saluta, la verità”;
“Così ce ne andiamo in giro / nei bar, sui tram: ognuno un santo mistero / messo in piazza, un esempio / che nessuno può seguire”;
“Giù, giù, sul fondo / si va, dove le cose / ‒ tutte – sarebbe uguale / se non ci fossero mai state”.
Chi scrive rimane stranito, estraneo, incapace di definirsi in un ruolo preciso:
“Si sta col cielo, qui, / e con la terra, / come per strada i piatti / col frigo e le piante grasse / per un trasloco”;
“Sentivo, ora, che loro – alle mie spalle ‒ / erano fatti della pasta del mondo, / solida, chiara. E io, di niente”;
“Tre case / stanno là, sopra il ponte, / belle come un saluto. / Solo a loro io bado / qui, con le mani in mano, / con l’occhio del pastore / che da lontano conta le sue capre”.
Averlo, l’occhio del pastore, concreto, fattivo e capire le cose, sapersele spiegare nella loro semplicità. Riuscire a chiarire ciò che esiste sarebbe, secondo Umberto Fiori, il dovere (un imperativo filosofico, quasi) del poeta.
È un assunto contrario a quanto scriveva Giorgio Caproni, che non nel chiarimento, bensì nel confondimento indicava la missione di chi scrive versi:
“Imbrogliare le carte,
far perdere la partita.
È il compito del poeta?
Lo scopo della sua vita?”.
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