Cortile a Cleopatra
- Autore: Fausta Cialente
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2022
Un libro che dischiude un mondo esotico, palpitante, ricco di profumi e aromi che ci inebriano. Cleopatra è il nome di un sobborgo di Alessandria d’Egitto sulla costa di Ramleh; in questo microcosmo brulicante di presenze stravaganti e insolite ci trasporta Fausta Cialente, grande scrittrice del nostro Novecento letterario premiata con lo Strega nel 1976, aprendo il sipario su un palcoscenico screziato d’Oriente.
Cortile a Cleopatra (La Tartaruga edizioni, 2022), concluso nell’aprile del 1931 e pubblicato per la prima volta soltanto nel 1936, era il secondo romanzo dell’autrice che aveva esordito sulla scena letteraria con lo scandaloso Natalia (1931) e ora tornava a stupire il pubblico con una storia di ambientazione egiziana, dando vita sulla pagina alle atmosfere levantine in cui da una decina d’anni era immersa dopo il suo trasferimento ad Alessandria al fianco del marito, il compositore e agente di cambio Enrico Terni.
L’Egitto narrato da Fausta Cialente è fatto di un’umanità dolente e misera stritolata da invidie, gelosie, mancanze, che ricorda I Malavoglia di Verga.
Tra queste case basse corrose dal sole e dall’aria salmastra assistiamo al dipanarsi della vicenda del giovane Marco, definito dalla critica un “puer aeternus” come l’Arturo di Elsa Morante. Marco, selvatico e ribelle, che legge troppi libri e sogna una vita diversa in cui poter ricalcare le orme mitiche del padre scomparso, “Alessandro pittore”, di professione imbianchino ma artista per vocazione.
Come Wilhelm nel romanzo di Morante anche il padre italiano venerato da Marco è un eterno vagabondo, sembra obbedire al diktat morantiano:
quelli come te che hanno due sangui diversi nelle vene non trovano mai riposo né contentezza (…) tu te ne andrai da un luogo all’altro come se fuggissi di prigione o andassi alla ricerca di qualcuno.
Il figlio ne seguirà il destino, compiendo la medesima odissea al rovescio, facendosi come lui beffe di Itaca stringendo i pugni in aria dinnanzi alla promessa di una salvezza possibile.
Dopo un lungo e avventuroso viaggio per mare – che ricorda le storie piratesche di Conrad – Marco giungerà in Egitto per ritrovare la madre, la greca Crissanti il cui nome significa “Fior d’oro”, e il suo arrivo romperà per sempre i delicati equilibri del cortile.
L’incipit spensierato, che vede protagonista la scimmia Beatrice sotto il cui sguardo si svolge l’intera storia, presto cede il passo all’avanzare inoppugnabile della tragedia.
Marco condivide una caratteristica che accomuna tutti i personaggi di Cialente: l’istinto della fuga e, quando si troverà imbrigliato in una vita che non ha scelto, in lui diventerà irresistibile il desiderio di fuggire agli obblighi, ai legami, ai doveri. Nulla potrà trattenerlo, né l’amore della bella Dinah né la devozione fedele di Kikì, in lui si fa strada un’irrequietudine tempestosa che genererà scompiglio e porterà dolore e morte. La passione per Eva, l’irraggiungibile moglie del pellicciaio che assume per lui le sembianze consolatorie di una madre, sarà la scintilla che farà esplodere il dramma.
Sullo sfondo Cialente fa vivere le atmosfere che sono le vere protagoniste della storia: un sole “mostruoso”, un vento “indiavolato”, un’aria febbrile che scotta, metafore dell’animo indomabile del protagonista.
La storia, come ne L’isola di Arturo della Morante, si conclude quando il puer abbandona la terra conosciuta per cercare un nuovo approdo. Non sappiamo che ne sarà di Marco, ma ci rimane nel cuore quella sua infelicità, quel suo struggimento, la pena del suo vivere perennemente alla ricerca di qualcosa che forse non troverà mai. Dietro di lui rimangono le vittime del suo egoismo, ma non ce la sentiamo di condannarlo, perché lui stesso sembra preso in trappola dal proprio inganno come un uccellino in gabbia che si dibatte forsennatamente per volare.
Se Marco, emblema di quella marginalità cara a Cialente, “sradicato” come l’Enzo di Un inverno freddissimo (1966), è il protagonista indiscusso della vicenda, meritano una menzione anche i personaggi secondari che popolano il famoso cortile di Cleopatra. C’è Haiganùsh, la figlia del calzolaio armeno Aram, che cova un’invidia segreta e maledice la propria giovinezza sprecata senza uno sposo; Katina, che accudisce con dedizione il marito malato Spiro e in quel sacrificio trova il senso stesso della propria esistenza; la loquace serva Polissena; la devota Crissanti che veste di nero e prega ogni giorno un Dio che non la ascolta davvero; il pellicciaio Abramino dedito al proprio lavoro e preso nel vortice di mille tribolazioni, acuite dalla moglie Eva, una donna piacente ma svogliata, e dalla capricciosa figlia Dinah. Come direbbe Saba sono tutte “creature della vita e del dolore”, le loro presenze danno vita al microcosmo multietnico e variegato in cui Cialente, come un abile burattinaio, muove le fila della storia. Sono in particolare tre donne a tenere in pugno la sorte di Marco: Dinah, giovane e splendente, che recita alla perfezione la parte della promessa sposa; la selvatica Kikì, figlia bastarda del locandiere Armando, che patisce la fame e le botte ma nutre una vocazione sconfinata per la libertà; e infine Eva, la moglie del ricco Abramino, dalle mani profumate ricoperte di ori e la bellezza matura non ancora sfiorita, che dinnanzi agli sguardi languidi del giovane straniero sente crescere dentro di sé uno strano turbamento.
Di tutte loro è la randagia Kikì l’anima più affine a Marco, il suo doppio al femminile; ma quando lui se ne accorgerà sarà troppo tardi e alla ragazzina, nel finale, non resterà che rincorrere la scimmia Beatrice in fuga sulla sabbia, cercando di agguantarla come per conquistare un pegno d’amore tardivo.
Fausta Cialente non lascia nulla al caso nel suo allestimento teatrale; nella prefazione al romanzo, scritta per la seconda edizione del 1953, la scrittrice si congedava dalla scena scrivendo che “Un libro che si apre è come un sipario che si alza” e con queste parole consegnava ai lettori la storia di Marco, della scimmia Beatrice e di tutto quel mondo esotico, variopinto, rumoroso, ormai scomparso. La storia prosegue come un viaggio verso l’ignoto, perché per ogni lettore occidentale quel cortile di Alessandria d’Egitto rappresenta un territorio inesplorato; ma capiamo che la scrittrice aveva ben chiara la sua trama, che iniziava con il ritmo spensierato e gaudente di una commedia, ma virava in tragedia. Cialente fa uso di una sapiente tecnica narrativa, detta “la pistola di Cechov”: se nella storia compare una pistola prima o poi sparerà, così nessun elemento è inessenziale nella narrazione. Nella prima parte del romanzo assistiamo all’urlo di Polissena “Sangue! Sangue sulla porta di casa!” e, nella scenetta divertente e un poco folcloristica che si imbastisce tra la serva e Crissanti, scopriamo che si tratta di un presagio di malaugurio perché sangue sull’uscio porta disgrazie, miserie e malattie. Il lettore poi se ne dimentica, perdendosi nel flusso avvolgente e tumultuoso della narrazione; non se ne dimentica la scrittrice che, nel finale, ci ripropone con maestria la medesima scena, ma con un esito diverso.
Tra le pagine di Cortile a Cleopatra sembra vivere un’invincibile estate e non c’è dubbio che sia l’ambientazione una delle carte vincenti di questo romanzo che, trascorsi quasi novant’anni dalla sua prima edizione, non ha perso un briciolo della sua freschezza. Tra queste pagine si respira il vento del deserto, l’hamsim, si ode il gorgoglio felice delle onde marine, si è avviluppati dal caldo asfissiante, implacabile, che rende l’aria opalescente e s’ode il dolce lamento delle musiche arabe. Gioia e terrore si mescolano in un ritmo vorticoso che conduce il lettore a perdersi sulle soglie di un altro mondo, a bagnarsi i sandali all’ombra delle dune della spiaggia di Ibrahimieh e a stordirsi al suono rombante del mare che si ingolfa prima di gettarsi a riva.
È un libro ricco di parole esotiche greche, arabe, ebraiche: insciallah, kalimera, pessah, di cui in appendice a questa edizione troverete un piccolo glossario esplicativo.
Fausta Cialente disse di aver iniziato a scrivere Cortile a Cleopatra dopo dieci anni di permanenza in Egitto credendo di esprimervi insofferenza per una terra che sentiva di non amare. Invece, come scoprì lei stessa vent’anni più tardi nel redigere la prefazione, in queste pagine traspare un vivo amore per Alessandria d’Egitto e i suoi sobborghi, per le atmosfere levantine che nella storia di Marco rivivono in tutto il loro splendore favolistico e lussureggiante, perpetuate in un eterno incanto che ancora riesce ad ammaliarci.
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