Dīwān
- Autore: Al-Ḥallāj
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2006
Siamo tutti inorriditi di fronte ai delitti e alle esecuzioni fanatiche compiute da jhaidisti. Essi travisano i messaggi del Corano, rivolti alla nostra capacità di tenere a freno il male che alberga in tutti nel profondo, impulsi di vendetta, rancore e aggressività incontrollata. Tale è il significato di "jihād", che letteralmente significa "sforzo", entusiasmo spirituale verso uno scopo nobile di autoperfezionamento.
La corrente islamica dei "sufi" è sempre stata pacifista, rivolta all’unione mistica con l’Unico. Evita l’interpretazione rigida e dogmatica delle scritture e del culto.
La parola "sufi" ha origini controverse. Potrebbe derivare da "ṣūf", lana, materiale con cui era confezionata la tonaca dell’asceta, ma anche da "ṣafā’", purezza; la terza interpretazione etimologica sarebbe "ṣuffa", portico, il porticato vicino alla casa di Maometto a Medina, dove il profeta aveva incontrato alcuni santi uomini.
Per amore della conoscenza ho scelto un piccolo ma denso e magnifico libro di un poeta arabo, da porre all’attenzione dei ricercatori e degli amanti della poesia mistica: Dīwān (Canzoniere, Libreria Editrice Psiche, 2006, pp. 94) di Ḥusayn b. Manṣūr b. Maḥammā al-Bayḍāwī al-Ḥallāj, conosciuto come Al-Ḥallāj, grande non meno di Rumi, a cura della studiosa Sara Hejazi, nata in Iran, nel 2006 dottoranda all’Università di Bergamo. Hejazi scrive una dotta prefazione affascinante, capace di coinvolgere non solo l’intelletto ma le coscienze e le nostre fibre più segrete.
Il termine "Dīwān" rimanda immediatamente al Divano occidentale e orientale di Goethe, raccolta di poesie erotiche e nello stesso tempo sapienziali. Tali sono le strofe di Al-Hallāj, nato in Persia nell’858 d.C. e morto giustiziato a Bagdad, Iraq, nel 922 d.C.
Il poeta viandante nel suo predicare con parole che avevano il "soffio di vita" arrivò fino in Cina. Attraeva irresistibilmente le masse, insegnando l’unione con Dio nel cuore. Dio inteso come l’Amato, l’Amico, secondo la tradizione "sufi", ma spingendosi ancora più in là nel dire e nell’azione. Si spogliò dell’abito monacale per indossare abiti comuni; non giudicava necessario recarsi alla Mecca (dove però si recò diverse volte) e sosteneva che le pratiche religiose potessero essere sostituite da buone azioni, quali il sostegno ai poveri e agli orfani. Veniva denominato "cardatore delle coscienze" e anche "cardatore di segreti" come maestro, secondo immagini pittoresche e da tutti comprensibili.
Versi come i seguenti, attualissimi e senza tempo, sorpassavano l’autorità dei califfi, gelosi e oppositori, timorosi di perdere autorità e ascendente sul popolo:
"Io sono colui che amo, e colui che amo è me. / Siamo due anime scese ad abitare / in un unico corpo. / Quando vedi me, vedi lui; / quando vedi lui, vedi tutti e due.”
Anche:
“Il tuo spirito si è fuso con il mio, / così come si fondono insieme / il vino / con l’acqua chiara. / Ciò che tocca te, tocca anche me. / Così tu sei me, / in ogni tua parte.”
“E c’è l’ebbrezza, e la sobrietà; / il desiderio e la vicinanza; / poi l’unione, e la gioia. / C’è l’avvolgere e il lasciare andare, / la sparizione, poi, e la separazione; / poi l’unione e l’avvampamento. / Poi c’è lo stato estatico e il richiamo; / poi l’attrazione e la conformazione / e infine l’apparizione divina e l’investitura dell’eletto.”
Da queste parole vediamo il ruolo essenziale del desiderio, come verrà enormemente sottolineato dai neoplatonici umanisti e dalla poesia stilnovista. Il movimento alterno di vicinanza e allontanamento ricalca i moti insiti nella natura, specchio e casa di Dio. Ma il tempo terreno viene trasceso e finisce nell’eternità:
“Mentre il tempo, intanto, come un sentiero, / s’infossava all’ombra della montagna.”
Venne considerato eretico. Dopo molti vani tentativi di accusarlo, infine vi riuscirono, per la sua asserita identificazione con Dio: "Io sono la Verità", affermò similmente a Cristo. Come Gesù Cristo distrusse l’autorità del tempio, trovando il Divino ovunque, secondo un monismo assoluto, sperimentato nell’intimo. Come Gesù Cristo venne appeso a una croce e bastonato. Gli furono tagliati meno e piedi, venne lasciato appeso un’intera giornata, esposto in condizioni atroci. Il giorno seguente fu decapitato, il suo corpo bruciato e le ceneri disperse.
La sua vita mite offerta all’Amore cosmico suscita commozione. In lui Dante Alighieri trovò ispirazione. E anche noi, in una sorta di eternità.
Il maggior critico di Al-Hallaj è stato il francese Louis Massignon, insigne teologo e orientalista. Pure Sara Hejazi trova parole ispirate per dirne, alla fine del suo saggio introduttivo:
“Ciò che rimane dunque del pensiero di un uomo vissuto ormai dieci secoli fa è il messaggio trascendentale, quasi oraziano, del “non omnis moriar” (“non morirò del tutto”), il cui mezzo è stato il cantare divino del divino e il cui fine è e sarà l’immortalità, mentre nella mente riecheggia la fede solenne in Dio, il grande.”
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