Dante
- Autore: Alessandro Barbero Dante Alighieri
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Laterza
- Anno di pubblicazione: 2020
Dante (Laterza, 2020), l’ultimo saggio del professor Alessandro Barbero, atteso dal vasto pubblico è da un paio di settimane in libreria ed è frutto di una ricerca documentaria ampia e rigorosa. Lo storico, con la sua consueta abilità narrativa e qualche intercalare (“beninteso”), avvicina i lettori in modo graduale alla storia personale di Dante Alighieri attraverso l’analisi dei documenti notarili e delle sue opere letterarie: conoscere più da vicino la storia umana di Dante permette anche di comprendere i complessi meccanismi che dominavano la società fiorentina tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento. Quello di Firenze, infatti, è un microcosmo in continuo e perpetuo cambiamento: alleanze e guerre con Comuni limitrofi, guelfi bianchi, guelfi neri, e influenze ghibelline; interessi economici dei grandi Magnati contro quelli del popolo; cambi di status con l’“addobbamento” a cavalieri; prestiti di denaro, puntualmente rogati dai notai; matrimoni combinati attestati mediante accordi dotali...
“Ma cosa si intendeva esattamente quando si parlava di magnates […] e di popolo? La società fiorentina era stratificata, complessa e caratterizzata da una forte mobilità: si capisce che gli storici, che la osservano sul lungo periodo, facciano molta fatica a dare definizioni precise […]. I Grandi erano quelli che appartenevano a famiglie importanti, conosciute, ricche, […] abitavano in palazzi con torri, avevano terre e rendite, seguaci e guardie private, si addestravano al combattimento a cavallo […]. Il popolo, invece, era composto da gente che lavorava, che stava a bottega, trafficava e vendeva […]. Al suo interno il popolo era molto diversificato tra l’imprenditore che importava all’ingrosso la lana dall’Inghilterra e […] il ciabattino con la sua botteguccia all’angolo.”
Quali sono le origini di Dante? Il suo non è un nome antico, non è nell’elenco delle antiche famiglie nobiliari, lui è Durante filio di Aleghiero, ha combattuto a Campaldino come feditore a cavallo, quindi tra i nobili, che partivano al primo assalto.
Ma insomma, Dante era nobile o no? È una domanda a cui non è affatto difficile rispondere, proprio perché il concetto non aveva una definizione precisa: “la parola nobile è equivoca”. È già qualcosa aver chiarito che essere nobile non significava detenere un qualche titolo giuridico, accertato e verificabile, ma aveva a che fare in qualche modo generico con l’antichità della famiglia e col rispetto che suscitava in città.
Certo Dante era abbastanza ricco, possedeva svariati poderi e case, lo scopriamo negli Atti notarili in cui i suoi eredi riscattano questi beni negli anni successivi al suo esilio.
È però difficile, il professor Barbero lo evidenzia, comprendere il senso delle numerose transazioni: prestiti e restituzioni di denaro che si accavallano in brevi scansioni temporali, in cui gli Alighieri compaiono. Queste operazioni economiche (prestiti e richieste di somme cospicue) per noi sono prive di senso, ma certamente un senso lo avevano per gli Alighieri! I documenti notarili in cui gli Alighieri sono menzionati, in particolare lo zio Burnetto, sono copiosi. Gli Alighieri sono indicati come testimoni negli Atti con i Donati e con i Portinari. Perché? È abbastanza chiaro. La famiglia di Manetto Donati è quella del suocero di Dante, padre di Gemma. Quella di Folco Portinari è una famiglia che abita nel loro stesso sesto, costoro sono mercanti ricchi e sappiamo tutti che Dante rimase per tutta la sua vita legato, anche se platonicamente, a Beatrice Portinari.
Alla moglie Gemma, Dante non ha dedicato nessuna opera, tanto che sappiamo di lei solo attraverso documenti notarili con i quali la donna, rimasta sola in città dopo l’esilio del marito, chiede al Comune di poter ottenere la rendita spettante dai suoi beni dotali. Di Beatrice, invece, sappiamo da opere come La Vita Nuova fino alla Commedia.
Ciò che colpisce, di Dante, è la sua vitalità: studia, scrive, occupa cariche pubbliche come il Priorato, ha beni immobiliari di cui si occupa con il fratellastro, Francesco (le proprietà paterne resteranno sempre indivise), ha almeno cinque figli viventi.
L’anno 1302 segna la sua fine della sua carriera politica. Il Tribunale di Firenze lo condanna a morte e alla confisca dei beni.
“Fu un processo iniquo? Senza dubbio: il nuovo regime si vendicava dei suoi nemici. […] E soprattutto le epurazioni colpirono in modo selettivo: la maggior parte dei Priori in carica vennero lasciati tranquilli. […] Si vollero trascinare in giudizio soprattutto quelli che potevano essere condannati con qualche verosimiglianza. Dante barattiere, per lucro privato? Certo che no, ma…”
Nei primi anni di esilio egli prova a tornare in città, ma i tempi e le vicende non lo permettono e allora si allontana definitivamente. I vari soggiorni sono difficili da ricostruire: molto probabilmente Lucca e Bologna, ma quelli più lunghi e meglio documentati sono presso il signore ghibellino Cangrande della Scala a Verona e presso il guelfo Guido Novello da Polenta a Ravenna.
Sono anni difficili per Dante; un tempo cittadino di un Comune e “uomo politico”, ora è costretto a vivere stipendiato da signori feudali. Si sente un servo (“Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”), eppure, a dispetto di versi poco lusinghieri scritti negli anni precedenti contro i suoi attuali Signori, questi riconoscono la sua grandezza intellettuale e lo mantengono negli ultimi anni di vita, sicuramente c’è il loro intervento nel “collocare” in modo onorevole i figli di Dante: Jacopo (canonico a Verona), Piero (notaio e primo critico delle opere del padre) e Beatrice (suora a Santo Stefano in Ravenna).
Nel mese di settembre 1321, “Dante dev’ essere morto nelle prime ore della notte tra il 13 e 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero”.
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Il libro è per tutti coloro che amano scoprire particolari inediti della vita dei Grandi.
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Conosciamo il prof. Alessandro Barbero attraverso la televisione. I suoi programmi trasmessi da RAI Storia avvincono per lo stile comunicativo e brillante, per l’esattezza della ricerca storiografica; trasportano nelle vicende, illustrando i personaggi conosciuti da vicino. Barbero è docente di Storia Medievale presso l’università del Piemonte Orientale. Autore di numerosi libri, nel 1996 ha vinto il premio Strega con "Bella vita e guerre altrui di mister Pyle, gentiluomo".
L’ultima sua fatica storico letteraria è "Dante" (Gedi edizioni, su licenza di Laterza, pp. 361, 2021). Accurato fin nei minimi particolari, con una grande mole di note e ricchissima bibliografia, il libro si propone di fare luce sulla vita del sommo Poeta, anche nei periodi più oscuri dove le fonti sono carenti, specie negli ultimi venti anni della sua esistenza, quelli del doloroso esilio.
Nel leggere la bella biografia, ci rendiamo conto perché Ugo Foscolo abbia coniato l’espressione "ghibellin fuggiasco" riferita all’Alighieri, sebbene questi non fosse mai stato un ghibellino ma guelfo bianco, certamente vicino ai ghibellini nel sentire, dopo la fuoriuscita da Firenze, con il sogno di ritornarvi, mai coronato.
Il tono di Barbero è misurato e oggettivo, eppure giustamente in molte pagine la sua scrittura è calda ed empatica come si conviene a un ottimo romanziere. Nulla è inventato, anzi con meticolosa indagine l’autore corregge diverse inesattezze contenute in Boccaccio nel "Trattatello in laude di Dante".
Il Poeta, staccatosi anche dai Bianchi, scrisse di sé nel "De vulgari eloquentia":
"ho per patria il mondo come i pesci hanno il mare".
Divenne malinconicamente fuggiasco; i suoi averi furono confiscati, si trovò spesso in condizioni economiche molto disagiate, da non poter più acquistare un cavallo, lui che in gioventù era stato uno dei "feditori", i feritori, cavalieri eroici schierati in prima fila nella battaglia di Campaldino del 1289, combattuta da Firenze contro Arezzo. Allora i benestanti fiorentini che disponevano del patrimonio necessario, fornivano di tasca propria la cavalcatura. Erano denominati "cittadini con cavallate", divenendo di fatto cavalieri, pur non appartenendo ai "magnati", ai "gentili" ovvero ai nobili come casato. Dante non era nobile ma possedeva un cognome da quattro generazioni, cosa allora notevole; poteva vivere di rendita e nel "Paradiso" sembra compiacersi nel salutare l’avo Cacciaguida con il titolo di "messere". Secondo la visione provenzale dolcestilnovista egli considera sempre la "gentilezza" una facoltà dell’anima individuale e non di stirpe, ma con il passare dei decenni rivaluta in parte il peso del lignaggio, nel "Convivio". Nel "Paradiso" troviamo una bella metafora: la "gens", il casato gentilizio, è paragonato a un mantello che si logora, più viene usato:
"Ben sé tu manto che tosto raccorce: / sì che se non s’appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force.” (Par. XVI 7-9)
Barbero commenta:
"con le forbici, cioè: per accorciarlo, quel manto, e ridurlo a nulla.”
L’amore e il rimpianto per Firenze nel Poeta è smisurato. Da esiliato chiama la città "Fiorenza" come era nominata in Italia, come la chiamavano gli stranieri:
"Fiorenza, la mia terra, / che fuor di sé mi serra, / vota d’amore e nuda di pietate”
(dalla canzone "Amor, da che convien pur anch’io mi doglia").
Vediamo uniti i due amori perduti, quello per Firenze e quello per Beatrice. Anche secondo Barbero, come per Borges, il Nostro grande scrive l’immenso poema per elaborare il lutto dell’amata, Beatrice Portinari, morta soltanto a 25 anni.
Dante, come d’usanza, venne sposato dalla famiglia in giovanissima età a Gemma Donati, imparentandosi così con quel Corso Donati "leader" dei Neri, la parte guelfa legata al papato; quel papato che decretò la sua rovina.
Venne eletto priore nel 1300, massima carica della città, costituita da sei priori. Fece parte del Consiglio dei Cento e con questa funzione si oppose strenuamente e ripetutamente alla richiesta di Bonifacio VIII di ricevere 100 cavalieri da Firenze per le sue imprese guerresche. Richiesta giunta da una Roma corrotta, così definita e stigmatizzata in un verso del canto XVII, "Paradiso":
"là dove Cristo tutto dì si merca".
Si fa di Cristo una merce. Ecco il ghibellino di Foscolo, nel cuore, che "libertà va cercando", simile a Catone uticense.
Vediamo l’esule accolto dalla nobiltà antica, da Cangrande della Scala, dai Guidi, i Malaspina, e molti altri, in fine da Guido da Polenta a Ravenna. Il pellegrino senza più patria frequentò la "nobiltà della montagna", composta da feudatari dell’Appennino, coinvolta sì nelle vicende politiche delle città comunali (spesso questi nobili venivano richiesti come podestà nelle città, e notoriamente i podestà dovevano essere stranieri per svolgere la loro funzione dirigente al di sopra delle parti); coinvolta ma capace di conservare tradizionali valori di coraggio, fedeltà, onore, pregio come richiedeva il codice cavalleresco e l’animo "gentile", perduto nelle lotte comunali.
Dante si recò, pare, (le fonti non sono certe) anche a Parigi, capitale della cultura occidentale, dove patì la vera e propria povertà, privo di mecenati, a disputare con i "filosofanti".
Firenze era Comune governato dal popolo. A tale causa l’artista dedicò il suo operato. Ebbe poi un cambio di visione e di rotta, durante l’esilio, testimoniato molto chiaramente nel "Convivio", in cui afferma:
“le populari persone… occupate dal principio della loro vita ad alcuno mestiere, drizzano sì l’animo solo a quello… che ad altro non intendono.”
La sua è aristocrazia spirituale, è monito importante da potersi riferire alla nostra società mercantile votata al consumismo.
Durante, detto Dante, era figlio di "cambiatori", usurai. Tale categoria veniva condannata e perseguitata dalla Chiesa (l’usura, peccato riversato sugli ebrei) se si trattava di piccoli prestatori, gente minuta; ma lo strozzinaggio, praticato anche al 20, 25 %, era osannato come encomiabile attività sociale e rispettata quando il prestito, detto "mutuo", era ingente. Si praticava la doppia morale quindi, permissiva verso la grande borghesia in ascesa.
Immaginiamo il dolore del Poeta nel vedersi accusato di "concussione", in sostanza di furto ai danni del bene pubblico, con un processo farsa a cui non volle mai presenziare. Egli si trovava a Roma quale ambasciatore presso Bonifacio VIII, quando venne imbastita la congiura contro di lui dai Neri. Il papa chiamò quasi subito Carlo di Valois a invadere l’Italia e naturalmente a punire i fiorentini, devastati per giorni dall’armata francese che uccise, stuprò, incendiò. Si resta colpiti dalla violenza esercitata sempre da tutte le partigianerie politiche; violenza considerata lecita, legale, come lecita era la vendetta, lecita la tortura.
I latitanti al processo venivano immediatamente condannati al rogo. Siamo nel 1304. La condanna per Dante (che pure chiese al Comune la grazia) venne ripetuta parecchi anni dopo, nel 1315; questa volta l’innocente contumace fu condannato alla decapitazione.
Un capitolo del libro è dedicato alle speranze, riposte da molti, anche dal Nostro, nell’imperatore Enrico VII, giunto in Italia per farsi incoronare. Enrico di Lussemburgo avrebbe potuto riportare la pace tra le tante fazioni tormentate. Sarebbe stata l’occasione, per il Poeta, di poter ritornare a Firenze. Enrico morì prematuramente nel 1313 e il sogno dantesco si dileguò per sempre.