Gita al faro
- Autore: Virginia Woolf
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
Come possiamo sopravvivere all’amarezza della vita? È questo il quesito che Virginia Woolf pone a se stessa e ai lettori del romanzo dal titolo “Gita al faro”.
Il romanzo in tre sezioni, pubblicato nel 1927, prende ispirazione dal ricordo dell’autrice stessa delle sue vacanze con la famiglia in Cornovaglia. Mrs. Ramsay, la madre, è tenera e amorevole, attenta con tutti. Mr Ramsay, il padre, incarna un intellettuale che si piange addosso, eppure egoista, debole eppure vanitoso, costantemente necessitante del supporto della moglie. Il suo atteggiamento diventa evidente quando proibisce al figlio minore James di fare una gita al faro, desiderata con ardore dal bambino.
La seconda sezione contiene i ricordi legati alla prematura scomparsa di Mrs. Ramsay e alla morte in guerra del giovane Andrew. Nella terza sezione, la casa estiva è riaperta dopo 10 anni. La situazione familiare è cambiata dalla precedente vacanza: Mr. Ramsay è vedovo e James ha 16 anni. Lily Briscoe, una pittrice, e Carmichael, un anziano poeta, sono invece ancora presenti come ospiti, come nell’episodio precedente. Solo dopo 10 anni, James è accontentato nel fare la gita al faro tanto attesa, ma ormai senza valore, nonostante che egli e Camilla (Virginia stessa) sentano ancora ribellione e rivalità. Ma, come succede nella vita, lo stesso minuto può essere foriero di tristezza per un uomo e contemporaneamente gioia per un altro, dalla parte opposta del mondo o semplicemente dietro l’angolo. È così che Virginia Woolf descrive le emozioni di gioia e realizzazione della pittrice Lily Briscoe che, in quello stesso istante, nella casa di vacanze, dava l’ultima pennellata al suo dipinto.
In questo meraviglioso esempio di autobiografia che diventa arte, l’autrice vuole comunicare diversi messaggi: la frustrazione, la perdita, il lutto che opprimono gli uomini di ogni età; il sogno che diventa realtà e il desiderio che è soddisfatto quando ormai ha perso di importanza; il problema dell’ispirazione artistica, resa possibile solo quando un tessuto ricco di immagini e ricordi, un’intuizione improvvisa, il cuore e la mente sono fusi.
Segue la recensione della scrittrice Monica Scalco
"To the Lighthouse" di Virginia Woolf uscì nel Maggio del 1927. Ho letto "Al Faro" nell’edizione del 1992, collana I Classici – Universale Economica Feltrinelli, nella traduzione dall’inglese di Nadia Fusini, la quale ha saputo far emergere tutta la bellezza originaria dell’opera. Straordinaria. Gli avvenimenti di per sé ordinari:
- una mamma, la Signora Ramsay, e un figlio, nell’atto di ritagliare, alla finestra;
- un padre nervoso che si intromette fra i due;
- una platea che assiste - Tansley, Carmichael, Lily, Bankes, Prue, Cam, Andrew – una donna che dipinge;
- una cena.
Poi tutto un capitolo dedicato al nulla
“cominciò un diluvio di tenebra immensa. Niente, sembrava si sarebbe salvato dall’inondazione, da quel profluvio di tenebra…”.
La Signora Ramsay muore, Prue e Andrew muoiono. I superstiti tornano per andare al faro, per compiere quella gita saltata dieci anni prima, ora il tempo è benevolo. James e Cam non ne sentono più il desiderio, tuttavia si piegano alla volontà del Signor Ramsay dispotico e tirannico. Lily riprende a dipingere quel quadro abbandonato dieci anni addietro. Subissati dai ricordi vagamente sbiaditi. La traccia è confusa il dolore è abissale. Alla fine giungono al faro “È sbarcato... È finita” ; Lily termina la sua opera -
“Eccolo - il suo quadro. (…) Era fatto; finito. Sì, pensò, mettendo giù il pennello spossata, ho avuto la mia visione.”
I fatti come spruzzi d’acqua sulla scogliera, flash subitanei, risucchiati dal mare.
La prima volta che lessi “Al Faro” capii ben poco. Aprivo e chiudevo il libro. Un contenitore di parole. Mi addormentavo. Capita a volte. A un certo punto non sapendo più che pesci pigliare lessi l’introduzione di Nadia Fusini dove, a pag. 21, scrive:
”Perché la Woolf ripete più volte che nella scrittura è questione di orecchio; di sentire o non sentire un certo ritmo”.
Fidandomi della rivelazione, schiarii la voce e mi tuffai un po’ esitante nella lettura a voce alta. Guidata da una punteggiatura precisa, repentinamente la voce si accordò al pensiero e il libro da contenitore divenne storia. È capitato che dando fiato allo scritto ho potuto sentire i silenzi e le pause. Grazie alla punteggiatura. L’ago che entra nel tessuto seguito dal filo, passa dietro fuoriesce e tesse la trama. Colpisce la destrezza nell’eseguire i punti più complicati. I fili non penzolano e non si sormontano. La punteggiatura costituisce in questo lavoro della Woolf - lei stessa dice di non saper come definire Al Faro, trovando inappropriato Novel - quel filo di cui tanto parla; un filo che “riconduceva ogni cosa alla semplicità… sapeva unire questo a quello”, tant’è che, dalla difficoltà iniziale di non riuscire proprio a entrare nel racconto, sentito come farraginoso, a tratti ostico, non appena la lettura è diventata sonora, si è svelata ogni cosa. Quanto mi piace l’uso del trattino, l’hyphen inglese, e quante parentesi, custodi dell’ essenza, sotto valutate, anzi redarguite duramente se si fanno vedere due volte nella stessa pagina, perché si dice portatrici di disordine, niente di più falso. Al Faro né è la testimonianza.
“I bambini non dimenticano. Per questa ragione era importante ciò che si diceva e faceva ed era un sollievo quando erano tutti a letto. Allora non doveva pensare più a nessuno. Poteva essere se stessa, starsene da sola. (…) Ciò per cui siamo riconosciuti sono cose da bambini. Sotto è tutto buio, tutto si dilata, si fa incommensurabilmente profondo: ma di tanto in tanto risaliamo alla superficie e così ci riconoscono.”
Si avverte tutto il turbamento dell’artista, il cuneo di tenebra dentro al quale si infila. “si sentiva un’anima non ancora nata, un’anima spogliata del corpo, esitante su una specie di ventoso pinnacolo, esposta senza protezione a ogni raffica di dubbio.” Questa è Virginia Woolf. Una sensibilità proiettata chissà dove dentro una visione, la scossa di nervi che la agita “in un bacino profondo di realtà” che l’artista deve scandagliare. Lei sostiene che non conta il sesso nella scrittura, di certo è più ferrata di me in materia, tuttavia non riesco a disgiungere la sua sensibilità dal suo essere femminile. E chiaramente ne faccio un vanto.
“Eccolo – il suo quadro. Sì, con i verdi e gli azzurri, le linee che correvano in alto e di traverso la volontà di qualcosa. L’avrebbero appeso in soffitta, pensò: forse distrutto. Ma che importava?”
Aliena forse, non di tendenza, isterica. Non importa. Figlia di un padre famoso per l’epoca, Al Faro evoca la sua famiglia d’origine, nelle intenzioni. Ne uscì poco del padre, un uomo avido di cuore, dai tratti prepotenti, dominato a volte da una profonda frustrazione che faceva pagare ai figli, costringendoli a un perenne confronto con la durezza della vita; ne emerse invece una meravigliosa figura di donna: la Signora Ramsay. Bellissima, opalescente. Il faro del racconto. Una lama di luce nelle tenebre. La madre di Virginia. La punteggiatura consente di godere della voce della Woolf che si infila fra quelle della Signora Ramsay, di suo marito, di James prima bimbo poi adolescente, della sorella Cam, quella di Lily Briscoe e di tutte le altre presenze del racconto. Si sente nitida una voce fine, libera, profonda. Scrive nel suo diario il 21 marzo 1927:
“Il mio cervello è ferocemente attivo. Voglio dare l’assalto ai miei libri, quasi fossi conscia del passare del tempo; vecchiaia e morte. Ma quanto sono belle certe parti di Gita al faro! Morbide e flessibili e credo profonde, e mai una parola sbagliata per intere pagine. È questa l’impressione che ho a proposito della cena e dei bambini in barca; ma non di Lily sul prato. Quello non mi piace molto. Però mi piace la fine.”
Già.
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