Inutile Tentare Imprigionare Sogni
- Autore: Cristiano Cavina
- Genere: Scuola
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Marcos y Marcos
- Anno di pubblicazione: 2013
“Casola Valsenio, Romagna. In viale Neri, in cima alla salita del viale delle Rimembranze, ci sono le case popolari.”
Come molta letteratura nord americana, che ha smesso da un po’ di tempo di essere ambientata solo nelle grandi metropoli, penso ai libri di Elizabeth Strout, Joyce Carol Oates, Anne Tyler, che raccontano in modo esemplare la provincia americana profonda, anche nella nostra narrativa contemporanea si sta affermando il racconto della provincia. Penso a Ivano Porpora (autore de “La conservazione metodica del dolore”, a Marco Malvaldi, Mariolina Venezia, Ada Murolo, Melania Mazzucco (autrice di “Limbo”), capaci di ambientare i loro romanzi in piccoli centri poco conosciuti della penisola, ma non per questo meno esemplari del nostro faticoso vivere la contemporaneità.
Cristiano Cavina unisce nel suo romanzo dal titolo immediatamente riconoscibile come provocatorio, Inutile Tentare Imprigionare Sogni (Marcos y Marcos, 2013), il mondo della scuola più marginale e meno raccontato, quello di un istituto tecnico industriale, l’ITIS Alberghetti di Imola, descritto come un incrocio tra una fabbrica fordista, una caserma, un reclusorio, un convento, dove alunni e professori sono costretti a convivere come se dovessero scontare una pena.
Quattrocento studenti, tutti maschi, passano la loro giornata in questa struttura, che occupa la villa di campagna del vecchio conte Alberghetti, la cui casata si è estinta. Nulla è pensato per la comodità di una scuola, tutto è rimasto come allora, una campagna fredda e lontana dai mezzi di trasporto, mura fatiscenti, soffitti affrescati distrutti dall’umidità e dai fiati delle migliaia di studenti che vi si sono avvicendati.
”L’inizio della prima ora e la fine dell’ultima ora non erano nemmeno scanditi da una campanella, ma da una sirena da fabbrica... La sirena della prima ora ululava, come se ci fossero stati dei branchi di lupi famelici a caccia per i corridoi”
Cavina racconta in prima persona la vicenda scolastica di uno studente che odia la scuola, gli insegnanti, le materie in programma (tranne l’italiano…) i compagni, i bidelli, i presidi: la sua critica feroce è rivolta a tutto il mondo della scuola, in particolare all’istruzione tecnica e professionale, che sembra essere distante anni luce dalla scuola tradizionale, il liceo classico per intendersi, di cui in genere si parla spesso nella narrativa di successo che ha per oggetto la scuola (Paola Mastrocola è diventata celebre!). Nelle aule di meccanica, di elettrotecnica, vicino ai torni e a strumenti che sembrano di tortura, gli studenti giocano a carte, dormono nascosti dai tecnigrafi alzati, i computer beige sono grandi come lavastoviglie, i professori anziani frustrati e infelici, violenti o distratti, incapaci di rapportarsi agli studenti demotivati, chiamati con epiteti deformanti: il conte Vlad, Corvagli, vicepreside in tuta di acetato verde, sedicente ecologista/pacifista, odiato dal prof di saldatura, Serafino Dal Re, che odiava altresì “due terzi della classe, in realtà, e quasi la totalità dell’istituto, corpo docente compreso”.
Lo scrittore non risparmia i bidelli (“la scuola te ne rifilava un tanto al chilo per ogni corridoio”) e, nell’episodio che racconta la ricerca di un kit medico per uno studente ferito, esercita tutto il suo sarcasmo contro una categoria molto nota a chi conosce la scuola: il bidello è descritto immobile nella sua postazione all’angolo del corridoio, intento a fissare un punto del soffitto, chiuso in un camice blu tenebra, come se la scuola fosse un vero intralcio ai suoi programmi di vita.
Le ragazze compaiono poco, frequentano ragioneria e sono oggetto di ammirazione ma difficili da raggiungere: in questo mondo maschilista e violento, l’unica prof donna è bollata come “balenottera azzurra”, mentre la ragazza a cui aspira il protagonista, Veroli Wanda, si concede a Consoli Camproni, il fichetto in kefiah rossa attorcigliata e jeans sbiaditi al punto giusto, studente di liceo, difensore della pace nel mondo e propugnatore di un grande sciopero e per questo osannato dalle ragazze.
L’aspetto più sorprendente del libro di Cavina è l’uso di un linguaggio originale e fortemente espressivo, infarcito di efficacissime espressioni colloquiali, ricco di figure retoriche mai letterarie, sempre legate al mondo industriale o agrario da cui proviene l’utenza della scuola raccontata. Paesaggi, atmosfere, abbigliamento, interni di scuole e case riflettono un mondo in difficoltà, una società fortemente condizionata da una profonda demotivazione a vivere, a studiare, a costruire. L’unico personaggio positivo del romanzo è la mamma del narratore, “Mamma Creonti”, che lava chilometri di pavimenti, assiste il vecchio marito infermo, aspira al diploma per il figlio, lei che non è riuscita ad andare a scuola. L’aspirazione alla cultura come ascensore per la promozione sociale è narrata nelle ultime pagine del romanzo in modo commovente, dalla mamma dagli occhi nocciola che riesce, con il racconto della sua infelice giovinezza, con il rimpianto di quanto le è stato sottratto, a dare finalmente uno scopo alla vita insensata di suo figlio, indicando una possibile via d’uscita, un piano B, a quanti, purtroppo numerosi, oggi continuano ad occupare le aule scolastiche uccidendo dentro e intorno a sé ogni possibile riscatto.
Se ministro, direttori generali, dirigenti scolastici e amministratori avessero la pazienza di leggere questo libro, potrebbero capire che c’è da riparare la scuola pubblica italiana, subito, prima che non ne restino che le macerie, fisiche e culturali, dopo decenni di tagli, incuria, piccole stentate riforme, disprezzo per gli insegnanti e il loro lavoro, disinteresse per i giovani di questo paese e per il loro futuro.
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