L’amante
- Autore: Marguerite Duras
- Categoria: Narrativa Straniera
La prima sensazione leggendo L’amante di Marguerite Duras è di meraviglia. Tre paragrafi nella sola prima pagina. La seconda è di spaesamento, che cede il passo al dubbio, ma anche al fascino di una scrittura che fin dal principio si manifesta come protagonista del testo.
Marguerite Duras ha scritto un libro raro che parla attraverso il non detto, attraverso le pause, attraverso la suddivisione continua del testo in piccoli quadri, dettagli, immagini. Racconta mediante l’arte della fotografia. Tutto ciò che ha forma nel testo diventa visibile grazie a potenti flash dell’autrice sui suoi ricordi d’infanzia; ma sarebbe un errore considerare il romanzo esclusivamente come un racconto autobiografico, perché per l’autrice ricordare è sempre un’esperienza dolorosa e difficile: piuttosto, quello che troviamo ne L’amante è un tempo e un luogo riempiti di memoria. E dunque, è vero che la protagonista è l’autrice stessa; è vero che il libro ruota attorno alla giovinezza della Duras, agli anni trascorsi con la madre e i fratelli nell’Indocina francese, presso la cittadina di Vinh long, sulle sponde del fiume Mekong, ed è pur vero che il romanzo narra la clandestina e scandalosa storia d’amore tra la protagonista quindicenne, povera e magra, terribilmente graziosa, la “bambina bianca”, e un uomo adulto cinese, milionario e timoroso della volontà paterna.
Ma ciò che esplode in questo romanzo è la necessità del racconto, l’obbligo della scrittura. L’autrice si trova costretta alla narrazione per indagarsi, per dare un volto alla sua identità, al suo personaggio che si va formando sulla strada dell’adolescenza. Per comprendersi, Marguerite Duras getta su carta ricordi sconnessi, non vi è alcun filo temporale a legarli; continui sbalzi narrativi trascinano il lettore dalla storia d’amore con l’uomo cinese, al difficile e catastrofico rapporto con l’amatissima madre, dal silenzio e il timore indifferente per il fratello maggiore, usurpatore di felicità altrui, alla vita che sarà una volta arrivata in Francia, una volta che sarà scrittrice.
Ciò di cui si parla in questo libro è molto di più della prima storia d’amore nella vita di un’adolescente:
- c’è il desiderio di dare e ricevere amore attraverso un uomo “proibito”, proibito e vietato perché cinese, perché ricco, perché non europeo;
- c’è la volontà di sentirsi donna e la paura di vedersi ancora bambina;
- c’è il coraggio di dirsi Io con in testa un cappello da uomo;
- c’è la madre e la frustrazione e la povertà di un sistema familiare in completa rovina;
- c’è il sistema dell’uomo/padrone attraverso la figura sconvolgente del fratello maggiore che sradica attorno a sé qualunque possibilità di esistenza
- e tutto intorno c’è l’Indocina, la pianura di fango e riso, la forza dell’acqua, del fiume Mekong che scende veloce verso il Pacifico.
Sulla carta, attraverso echi concentrici, Marguerite Duras si frammenta e si ricompone di continuo. L’identità che ne esce fuori è frastagliata, porta addosso i vuoti della vita, che l’autrice non teme di mostrare tramite un linguaggio metaforico, avvolgente che parla e poi sta zitto; aspetta, ascolta il respiro del lettore, riparte, lasciando dietro e dentro di sé memorie senza ricordo.
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La straziante lucidità con cui Marguerite Duras racconta la propria vicenda personale è uno dei motivi principali che fanno di questo romanzo un grande capolavoro, come solo poche autobiografie sanno essere (premio Goncourt,1984).
Anni trenta, Indocina francese, è qui che la giovanissima scrittrice incontra un ricco uomo cinese con il quale intratterrà una licenziosa relazione sentimentale.
Tutto ha inizio sulle rive del fiume Mekong, dove i due si incontrano per la prima volta. È un incontro inatteso: lei appoggiata alle balaustre del traghetto, lui che la guarda dalla scura e lussuosa limousine parcheggiata sul ponte della nave; lei in vesti ambigue, lui elegante, di quell’eleganza sobria e fredda dei ricchi da generazioni.
La storia di due esistenze fragili, che si cercano, si toccano e che tuttavia non si completeranno mai, sfociando in un sentimento incompleto, che si perde nella fisicità di due corpi senza andare oltre l’illusione: “scopro che non ha la forza di amarmi contro il volere del padre, di prendermi, di potarmi via”.
Attraverso questo breve romanzo la scrittrice ripercorre a ritroso la propria esistenza, analizzando i rapporti familiari instabili, resi tali dalla presenza di una madre ingombrante che condizionerà tutta la sua esistenza, dal rapporto conflittuale con il fratello maggiore, insaziabile approfittatore e “mascalzone domestico”, dalla morte prematura dell’amato fratello minore, sino al rapporto controverso con l’amante.
Una storia d’amore scandalosa per la piccola colonia francese, una storia d’amore da cui trarre vantaggio per la sua famiglia; una storia d’amore impossibile per i due amanti.
Il rapporto scorre su un doppio binario: agli occhi degli altri e della sua famiglia, che tra l’altro approfitterà spesso delle elargizioni del cinese, nonché agli occhi di se stessa, la giovane donna incarna un’amante avveduta, tanto che, parlando di sé in terza persona rivela che “fin dal primo istante si rende conto di averlo in suo potere” e che le piace pensare “che abbia molte donne, e che lei sia una, confusa fra le tante”. D’altro canto, lui, l’amante, che perde ogni controllo alla vista di lei, trasportato da istinti inattesi da cui non riesce a liberarsi, finendo così per divenire una vittima di se stesso, consapevole dell’impossibilità di realizzare il desiderio di una vita quotidiana con lei: “il suo eroismo sono io, il suo servilismo è il denaro paterno”.
L’amante, romanzo breve, ambientato nell’Indocina francese, parzialmente autobiografico, di Marguerite Duras, si legge in poche ore. A tratti è insolito nella narrazione, effettuata attraverso voci narranti diverse (la prima persona della protagonista e un narratore esterno); a tratti sembra frammentario con introduzioni di dettagli che riguardano poco il tema principale, e giustificabili maggiormente nell’ambito di un diario, in cui emergono i ricordi di un passato dove è ambientata anche la storia dei due amanti, i veri protagonisti. L’opera si differenzia in più parti dal film di Jean-Jacques Annaud, da esso ispirato, dove si evidenzia la mancanza di amore da parte dell’adolescente nei confronti del ricco cinese trentaduenne ed ella, nel testo, sembra assai più complessa: sembra nutrire non solo amore per lui, ma anche una forte attrazione fisica per l’amica del collegio e perfino per il fratello maggiore in un violento e contradditorio rapporto di amore odio, con prevalenza del secondo. Tutti i personaggi sono assai sfaccettati, con marcati chiaroscuri, a partire dalla madre. Il lettore segue le vicende con trepidazione ed ha forte simpatia per il cinese che è descritto in maniera assai diversa dal bellissimo attore del film (Tony Leung Ka Fai); nel romanzo è debole, tutto concentrato sul sesso e, però, capace di un sentimento tenerissimo e che mai si esaurisce. La ragazzina (interpretata nel film da Jane March) nel testo della Duras, è meno cinica, più umana, più credibile, lui invece convince in entrambe le versioni.
Considero il testo di "L’Amante", scritto da Marguerite Duras, uno scritto in cui l’autrice si trova in piena crisi esistenziale. Sono forti i suoi lamenti, verso una madre potente ma anche svilita dall’amore per il solo primogenito.
Riecheggia forte, in lei quel malessere che è proprio di ogni adolescente, mentre il guardare altrove si scontra con il “guardarsi dentro” due immagini che spesso noi coincidono.
La protagonista, quindicenne, il cui nome non viene mai rivelato dall’autrice, sta tornando da una vacanza a Sa Déc in provincia di Dong Thap, per riprendere gli studi al collegio di Saigon, siamo nel 1929.
Mentre la ragazza si trova sul ponte dell’imbarcazione, attira con la sua umile e candida figura, l’attenzione di un giovane cinese, rampollo di una famiglia molto ricca della zona, di circa 10 anni più grande di lei. Comincia così, una lunga e dissonante storia d’amore tra i due, fatta di incontri clandestini, presso un’alcova di proprietà dell’uomo, dove la ragazza si sente avvolta dalla certezza di un rapporto che la irretisce e dal quale difficilmente, lei stessa riuscirà ad uscirne.
Ne diventa l’amante, la prostituta, la figlia. L’uomo se ne innamora disperatamente, sino a piangere con lei per quell’amore che in lui s’innalza come un mare in piena, sino a toccare il cielo.
Lei, non crede a questo amore, le sembra forse troppo ricevuto in dono, ma si lascia travolgere e trasportare come un fiume in piena.
Finiranno l’amore e gli incantevoli struggenti incontri, solo quando il padre di lui, porrà fine con un veto indissolubile a questa storia, che davvero è intrisa di passione di un sentimento che non ha priorità solo carnali, ma si veste quasi di divino.
Senza ombra di dubbio, “L’amante” di Marguerite Duras (Feltrinelli 1984, pp. 123), traduzione di Lionella Prato Caruso, è uno dei libri più belli che abbia letto nella mia vita. Non soltanto per la trama e la passione che racchiude la storia d’amore narrata, ma per come è narrata. Duras adotta una prosa veloce, asciutta e nello stesso tempo piena di lirismo senza sbavature sentimentaloidi, includendo nell’amore assoluto da lei vissuto quasi bambina elementi di ineluttabilità e destino, Eros e Thanatos, il significato della perdita che è parente della morte, l’eternità degli eventi in quanto incancellabili, la loro tragedia e nel contempo, sempre in quanto incancellabili, il loro potere salvifico. Nessuna parola è di troppo e nessuna manca in queste pagine composte di singoli quadri spezzati che intensificano i momenti, con una scrittura che dalla prima persona dell’io narrante passa d’improvviso alla terza persona. La terza persona, diversamente da quanto si potrebbe supporre, comporta una carica emotiva aggiunta, rafforzata, come se per esprimere i sentimenti più incisivi sia necessario, e così è, prendere le distanze da essi, per guardarli meglio e in modo oggettivo.
La storia è nota, tanto più che nel 1992 Jean Jaques Annaud ne ha tratto un film di pregio.
In Indocina negli anni trenta, una ragazzina di 15 anni si trova a bordo di un battello che naviga sul fiume Mekong diretto a Saigon. È appoggiata al parapetto, è vestita in modo stravagante: indossa un abito scollato di seta, liso, già di sua madre, con una cintura di cuoio stretta in vita sottratta al fratello, scarpe luccicanti di lamé con tacchi, i primi tacchi della sua vita, in testa porta un cappello da uomo. Per un giovane ventisettenne cinese, erede di un patrimonio miliardario, è un’apparizione. Anche per noi. Si ameranno. A lei sembra un gioco; poi, dato che si fa pagare, l’amore che non chiama tale diventa una fonte di sostentamento, un’entrata da consegnare a sua madre e al fratello maggiore, date le condizioni indigenti della famiglia. Si tratta di una famiglia alquanto debosciata, Duras definisce sua madre umorale e pazza. Bellissime sono le scene in cui il giovane cinese la lava, versandole sul corpo fragile brocche d’acqua profumata. L’erotismo raggiunge punte di vera poesia, accresciuta dal fatto che lei non ne sa nulla, viene iniziata e soprattutto è ignara dei suoi veri sentimenti. Li scoprirà soltanto alla fine della vicenda, troncata dal padre di lui. Un legame simile non può essere ammesso per ragioni di censo, di casta, di etnia. Tutto ricorda la vicenda shakespeariana di Romeo e Giulietta. Ma non ci sono cadaveri qui. E forse è anche peggio. La madre dell’amante bambina decide di ritornare in Francia con i tre figli, la ragazza ha diciassette anni. Sul ponte della nave “lei” scoppia in un pianto dirotto, inconsolabile e infinito, scopre in ritardo di essere innamorata, messa di fronte alla separazione.
“Tutto a un tratto non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare.”
Soltanto a posteriori la scrittrice può scrivere:
“I baci sulla pelle fanno piangere e sono una consolazione.”
Soltanto a posteriori sa che amore e desiderio fisico sono un “unicum”, e che la perdita fu inesorabile:
“Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi. [...] Sono invecchiata a diciott’anni.”
“Non c’era da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C’era fin dal primo sguardo o non era mai esistito. Era l’immediata intesa sessuale tra due persone o non era niente.”
Sappiamo che M. Duras si diede al bere. Dichiara con un candore tragico:
"L’alcol ha assunto le funzioni a cui Dio è mancato, inclusa quella di uccidermi, di uccidere.”
E poi, a distanza di decenni, “lui” approda a Parigi, la cerca, al telefono con voce tremante confessa la verità intramontabile.
“E poi sembrava che non avesse altro da dire. Ma poi glielo aveva detto.
Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte.”
Siamo di fronte a due anime che si sono riconosciute fin dal primo istante del loro vedersi. Vedono anche la loro tristezza. La ragazza, nel loro primo incontro, quando ancora si davano del lei, riguardo alla malinconia di lui, intimidito e credendosi non accolto, disse:
“[...] si sbaglia, aspettavo questa tristezza, era dentro di me, sono sempre stata triste.”
È questo che unifica: l’incontro di Amore e Psiche.
Dio-Amore fa, l’uomo invece disfa e distrugge sotto qualsiasi latitudine.