L’ultima intervista
- Autore: Eshkol Nevo
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2019
“It started with a writer’s block” (È iniziato con un blocco dello scrittore) è nato così L’ultima intervista, il nuovo romanzo di Eshkol Nevo dal 17 ottobre scorso nelle librerie italiane, pubblicato da Neri Pozza nella traduzione italiana di Raffaella Scardi. Lo ha spiegato, in un inglese fluente, lo stesso scrittore israeliano incontrando i lettori a Milano il 21 ottobre.
Nel libro, l’autore, protagonista e voce narrante Eshkol Nevo racconta:
avrei dovuto scrivere un romanzo, quest’anno. E invece scrivo le risposte a questa intervista, basata su “Una serie di domande dei nostri naviganti”, che mi ha spedito il responsabile di un sito. Avrei dovuto dare a quelle domande delle risposte preconfezionate, invece ho deciso di dire la verità. Sarebbe dovuta restare un’intervista e niente più, ma pian piano – evidentemente non ne sono capace – si sta trasformando in una storia. Avrei dovuto lasciare Dikla, i figli e la distimia fuori da questa storia, ma sono tutti dentro. Mi capita di alzarmi nel bel mezzo della notte e correre da Ari, nel reparto di oncologia, per ricevere la sua benedizione. Se è sveglio, guardiamo insieme le repliche delle partite del campionato e parliamo del più e del meno. Se dorme, gli rimbocco la coperta, riempio il bicchiere vuoto e ascolto i suoi respiri. Trovarmi in sua presenza mi conferma, chissà perché, che devo assolutamente proseguire con la stesura di questo testo, anche se non ho la benché minima idea – davvero nessuna idea – di cosa succederà.
Passati da poco i quarantacinque anni, Nevo, già apprezzato in Italia per Nostalgia, La simmetria dei desideri e Tre piani, non si sente più appagato dall’oggetto del suo quotidiano esercizio. Dalle colonne de “La lettura” del 13 ottobre scorso gli giunge peraltro piena e autorevole comprensione da Alessandro Piperno (quasi coetaneo di Nevo), il quale, recensendo in anteprima L’ultima intervista, spiega che:
Prima o poi capita a tutti – parlo di chi per vivere scrive romanzi. Inizi ad accusare una certa stanchezza, non tanto per le narrazioni cosiddette tradizionali, ma per certi stilemi cui tali narrazioni ti condannano. […]. Da qui l’impulso a metterti in gioco in prima persona.
In piena crisi creativa, Nevo decide dunque di sottoporsi a un trattamento meta-narrativo e così si auto-prescrive un elenco molto articolato di domande, in cerca della verità sul suo mestiere di scrittore e sull’atto dello scrivere.
Il risultato, per ironia della sorte, non è un saggio, bensì un nuovo romanzo dalla struttura e dal contenuto molto particolari, nel quale Nevo si trova a rispondere a domande come “Cosa la spinge a scrivere?”, “Fino a che punto i suoi libri sono autobiografici?”, “Chi è il suo primo lettore o lettrice?”, “Scrive di mattina o di sera?” o “Ritiene che la letteratura possa ancora influenzare il mondo?”. Le risposte di Nevo, in realtà, sono brevi narrazioni inscritte in una trama complessiva non lineare, ma organica e coerente, che ha ad oggetto l’intera vita dello scrittore, dall’infanzia alla maturità. L’ultima intervista è dunque un’opera di piena narrativa e la scrittura di Nevo vi appare in stato di grazia, in perfetto equilibrio tra leggerezza di forma e spessore di introspezione.
C’è solo una cosa che non capisco, ho aggiunto dopo un breve silenzio. Chiedi pure, ha detto Iris. Ho bevuto un sorso di caffè e mi sono scottato la lingua. Sapevo cosa volevo chiedere, ma non sapevo come formulare la domanda senza ferirla. C’era qualcosa di così vivo nel suo modo di descrivere il marito morto. Te lo dico io quello che vuoi chiedere, ha proseguito lei. Cosa voglio sapere? Cosa mi trattiene qui, adesso che Boaz non c’è più. Perché non prendo i miei figli e non me la filo da qui, vero? Te lo spiego. Quanti giorni dura la settimana del lutto, secondo te? Direi…sette giorni, no? Invece a Ma’ale Meir dura trecentosessantacinque giorni. Per un intero anno ti circondano di attenzioni. Bello. Nel mio caso non è stato solo bello, è stato vitale. […]. Dopo quell’anno avevo stipulato un patto a vita con questo insediamento. Me lo immagino. No, non te lo immagini. Perché non sai cosa significa una comunità. Lo si vede anche nei tuoi libri. Tutti sono sempre soli. E se crei personaggi del genere, significa che sei una monade anche tu. Prova a immaginarti la vita senza più solitudine. A immaginare che non ti permettano mai di sentirti solo perché sei avviluppato da un caldo involucro di sostegno. Ti rendi conto di quanta forza ti dà? Siamo rimasti un altro po’ seduti sul tetto, finché persino le luci di Tel Aviv hanno cominciato a diradarsi. E il caffè si è gelato. La brezza da fresca è diventata fredda. Rientriamo? ha chiesto. Ho annuito. Mi sono alzato e l’ho seguita.
Alle domande sulla scrittura Nevo risponde scandagliando la propria esistenza: il rapporto di coppia, la sua crisi, l’amicizia, le sfide vinte e perse nel rapporto con i figli e in quello con i padri, lealtà e tradimento, onestà e, ovviamente, politica (ancora a Milano, proprio in merito alla politica, Nevo ha chiarito che “L’ultima intervista” è “a true story also in catching the meaning of being an Israelian. I cannot write otherwise” ossia "una storia vera anche nel cogliere il significato di essere un israeliano. Non posso scrivere in altro modo").
Il racconto della vita, in Nevo, è uno scorrere fluido e incessante di azione e introspezione. L’ultima intervista dispensa qualità di scrittura in ognuno degli ambiti che abbiamo sopra ricordato. Forse, il racconto “politico” di Nevo è quello che più colpisce, per la capacità dell’autore cresciuto ad Haifa di isolare dal conflitto le istanze di un umanesimo universale: il ricordo infantile di una guerra, i dubbi e la paura su un taxi verso Gerusalemme, la diffidenza e la fiducia nel “fratello” palestinese, la non percezione della guerra da parte di un giovane ebreo americano, l’incontro di uno scrittore di sinistra con un gruppo di coloni ultra-ortodossi oltre la Linea Verde (episodio, quest’ultimo, raccontato in venti potenti pagine che in Italia invero erano già apparse sulle colonne de “La Lettura” del 25 giugno 2017, sotto forma di racconto breve intitolato “Un abbraccio silenzioso nella notte di Israele”).
Per questi aspetti L’ultima intervista ricorda a tratti Eccomi (Guanda, 2016), l’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer, autore nato nel 1977 (quindi poco più giovane di Nevo), che aveva già fotografato, in pagine di pari valore, la crisi attuale dell’intellettuale borghese quarantenne. Nevo però qui complica le cose, supera la narrativa di Foer e mette in campo anche una profonda riflessione sulla scrittura. Non è tanto la crisi del quarantenne tout court a interessare Nevo, quanto la crisi del quarantenne autore di narrativa di finzione: in particolare la sua urgenza di ricollocare la verità al centro del proprio esercizio letterario.
Nel libro di Nevo, scrittura e vita reale, verità e finzione competono incessantemente, e il risultato è la messa a nudo dello scrittore, l’apertura al pubblico del suo laboratorio interiore, lo svelamento della genesi e dei formanti della sua narrativa. Il lettore a un certo punto avverte che la ricerca della verità da parte di Nevo è così radicale da portarlo fino alla confessione della menzogna e alla messa a fuoco del ruolo che quest’ultima gioca tanto nella vita reale dello scrittore quanto nella sua scrittura (ogni più precisa anticipazione qui toglierebbe al lettore il gusto della scoperta…).
Sul piano dell’azione, nel romanzo di Nevo è ancora l’urgenza della verità a riportare ogni volta il protagonista al Tel Hashomer Hospital, nella stanza di Ari, l’amico di sempre che combatte contro la malattia, o a fargli cercare ossessivamente, in ogni città del mondo, lo sguardo di Hagai Carmeli, scomparso nel nulla un giorno, o a fargli accettare di raccontarsi, non creduto, immerso in mutande in un idromassaggio con un manciata di lettori per una conferenza improvvisata in un centro sportivo, o ancora a farlo viaggiare per ore in auto nella notte fino a un isolato kibbutz nel Negev, per osservare con il binocolo, non visto, Shira, la figlia sedicenne che ha scelto di vivere la propria vita lontana da lui.
Ci siamo addormentati abbracciati. Mi sono svegliato perché una mano gentile mi toccava la spalla. Iris era china su di noi, ci guardava con occhi lucidi e ha sussurrato: lo stato di allerta è finito. Avevo paura di muovermi, che il bambino si svegliasse finendo per scoprire di aver dormito con il nemico. Le ho sussurrato di rimando: non lo voglio svegliare. E lei ha mormorato: allora resta per lo Shabbat. Dopo un silenzio breve, brevissimo, durante il quale forse aspettava la mia reazione all’invito, ha di nuovo mostrato il suo sorriso malinconico e mi ha bisbigliato indicazioni, gesticolando, su cosa fare, ma senza sfiorarmi: prima sposta le braccia. Poi allontana il corpo. Esatto, proprio così. Attento quando gli passi sopra con la gamba. Nimrod – non Yanai – era il nome che intendevo dare a un figlio, se l’avessi avuto. E dal momento che la scrittura è anche, o forse soprattutto, un risarcimento per quello che non ci è stato dato vivere, ho chiamato diversi bambini, in diversi libri, Nimrod.
Con L’ultima intervista Nevo disegna una doppia traiettoria post-moderna: da un lato si interroga sulla base e sui formanti della sua scrittura, si dovrebbe dire sull’eziologia della sua narrativa, dall’altro ne descrive gli effetti. Su questo secondo versante, la riflessione di Nevo appare severa, a tratti amara:
Ieri ho chiesto a Dikla se le andrebbe di leggere qualcosa di nuovo a cui sto lavorando. Ho aspettato il momento adatto. Aveva appena terminato la sua corsa serale. Dieci chilometri. Ho aspettato che facesse la doccia. Shampoo, balsamo e crema idratante. Ho aspettato che indossasse la tuta da casa e le scarpe di lana spessa che ha comprato a Londra quando stava con il riccone. Ho aspettato che si preparasse una tisana, stendesse le lunghe gambe sul divano e la sorseggiasse in tutta tranquillità. Ho aspettato che le guance si arrossassero per il vapore caldo e che gli occhi diventassero lucidi come di lacrime. Solo a quel punto gliel’ho chiesto. Ha risposto che non è disponibile. È a metà di un altro libro, un thriller di quello scrittore scandinavo, Wolf? Insomma, dài, quello che sembra un vichingo. Ho insistito. Ho chiesto di nuovo. Ha scosso la testa per dire di no e spiegato che, a parte il vichingo, per lei è troppo presto per leggere qualcosa di mio. Che fino a oggi è sempre riuscita a tenere distinti, mentre leggeva, la storia e lo scrittore, le mie fantasie e la realtà della nostra vita, ma non era certa di riuscire a farlo anche adesso. Un’ondata di gelo mi ha attraversato, come sul bordo dell’abisso lungo la Carretera de la Muerte in Bolivia. Sono andato in cucina a sciacquare i piatti e mi sono detto, non sarà facile, ma il mio proposito adesso è questo: fare l’impossibile perché Dikla creda di nuovo che tutto al di fuori di lei è stato e sarà soltanto una storia.
La riflessione di Nevo sugli effetti della scrittura lo porta anche a dubitare della piena compatibilità tra scrittura e vita vissuta. Di questo Nevo sembra lasciarci nel libro degli indizi, sia pure fragili: le parole di una dedica ritrovata sulla prima pagina ingiallita di un vecchio romanzo o il dialogo finale con la foto di una giovane lettrice scomparsa. Chiunque, leggendo L’ultima intervista, potrà interpretarli.
Alla fine, riposto il libro, si ha la sensazione che Nevo abbia scritto un romanzo originalissimo, per struttura e contenuto: narrativa, non vi è dubbio, non saggio, ma narrativa nella quale lo scorrere del racconto risponde anche agli interrogativi del saggio. Ma L’ultima intervista è un romanzo anomalo anche perché è solo parzialmente riconducibile al genere autobiografico (e Nevo con onestà ci avverte anche di questo). La verità indagata da Nevo infatti non è totale, ma ha un perimetro ben delimitato: è solo la verità su cause ed effetti della sua narrativa. A ben vedere, però, il massimo atto di coraggio che si può chiedere a un romanziere.
L'ultima intervista
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