L’uomo e la morte
- Autore: Edgar Morin
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Centro Studi Erickson
- Anno di pubblicazione: 2014
La morte costituisce il grande rimosso delle società occidentali. Come interpretare altrimenti l’imperativo categorico del corpo-imperituro (giovane e in forma, il più a lungo possibile), l’esorcismo attraverso cui restituire al mittente il terror panico dell’invecchiare e, dunque, del morire? Per quanto mi riguarda Martin Heidegger l’ha detta meglio di tutti: dinnanzi al nostro “esser-ci per la morte” veniamo colti da un senso profondissimo di sgomento. Non c’è da stare a tirarla troppo per le lunghe: uscire per sempre dalla scena è un fastidio che ci saremmo molto volentieri risparmiati.
Per libera associazione, la classica domandona ora sarebbe questa: come e in che modo è andata evolvendosi (o involvendosi?) nel corso del tempo la nostra relazione con la Nera Signora, anche alla luce di antroposociologismi e freudismi vari assurti al rango di scienza? Persino l’uomo di Neanderthal ci teneva - eccome! - ai suoi morti, assicurando loro degna sepoltura. La prova del nove che siamo - come dire? - geneticamente programmati per illuderci che la storia continua: c’è vita dopo la morte, comprensibile il darsi da fare di spiritualisti e ghostbuster con le anime inquiete di defunti. Peccato che in fin dei conti si tratti solo di mere proiezioni.
Così l’inarrivabile Edgar Morin sull’argomento:
“I doppi dello spiritismo sono simili ai doppi arcaici: proiezioni, alienazioni dello spirito dei vivi. Proiezioni e alienazioni che fanno emergere potenzialità immense, giacchè il medium che comunica con gli ‘spiriti’ dei capi di eserciti, dei poeti, dei mercanti, degli eroi reca in sé la virtualità del capo di un esercito, del poeta, del mercante, dell’eroe. Chi non ha in sé due, tre o cinquanta persone?” (pagina 163).
Senza necessariamente tirare in ballo l’aldilà antropomorfo degli antichi greci (dei capricciosi o crapuloni, spiriti dei morti inquieti e vendicativi), la tendenza è stata insomma - ab origine - quella di aggrapparsi alla fede di un “dopo”, al pensiero di un “doppio” che sopravviva in altra forma alla decomposizione del corpo (da qui, sempre secondo Morin, l’istituzione delle diverse pratiche di sepoltura).
Il nocciolo ulteriore del discorso ora è questo: se alla luce della manciata di input sopra espressi vi andasse di approfondire rivoli e declinazioni - storiche, antropologiche, letterarie, filosofiche – che il "concetto" di morte evoca a sé da che mondo è mondo (e uomo, uomo) avrei trovato il libro che fa per voi/noi: la nuova, traduzione (a cura di Riccardo Mazzeo) de "L’uomo e la morte" (E. Morin), fresco di ristampa per le edizioni Erickson. Dentro ci scoverete quanto basta e avanza per farsi un’idea più che esaustiva del binomio uomo/morte dalle origini ai nostri giorni.
Il pensiero di morte che - cacciato a forza dalla porta principale di una contemporaneità afflitta da sindrome compulsiva di godimento, rientra puntualmente dalla finestra di un’inquietudine interiore che né i sacerdoti né gli esperti di esoterismo riusciranno mai a pacificare del tutto. Anche per via di questo stato di cose conviene addentrarsi tra le speculazioni di Morin: hai visto mai che grazie al suo acume (e anche alla luce del suo disincanto "scientifico") il senso (o il non-senso?) ultimo della nostra condizione possa rivelarsi finalmente nei suoi risvolti meno edulcorati e concreti, scoprendoci finalmente uomini e donne capaci di dignità perfino tanatologica?
L'uomo e la morte
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