La bella di Lodi
- Autore: Alberto Arbasino
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Adelphi
“Emerge dal buio scivolando in pantofole la nonna Fanny, come un topone nero, coi suoi occhiali rotondi, e un fascio di buoni del tesoro che sta tagliando con le forbicine da unghie.” (Pag. 63)
Alberto Arbasino assapora una fortuna inestimabile, talmente imponente che, se monetizzata, si potrebbe perfino pagare tutto il debito italiano: sa scrivere.
Capace di formidabili piroette letterarie, rende i suoi scritti momenti di esaltazione artistica.
Il flusso delle parole appartiene al gioco, all’inganno stilistico; il ritmo è un prodigio, un palpito vitale.
Lo stesso stile, al contrario, avrebbe l’effetto di una mina antiuomo nelle mani dei tanti scrittori bancarottieri colpevoli di distruggere la foresta amazzonica con le loro futilità.
La bella di Lodi (Adelphi), scritto nel 1972, racconta l’arricchimento e lo sviluppo sociale ed economico della facoltosa borghesia della provincia lombarda.
I futuri protagonisti del libro, i giovani fratelli Roberto e Sandro, saranno gli esponenti della espansione, dell’esaltazione padana di futura bossiana memoria.
Sono persone capaci, abili, astuti, non sono esenti di gravi difetti, ma hanno un modo di vedere il mondo diverso, attraverso il tempo e le persone.
Non si legano, sfruttano, ma come i faraoni e le loro piramidi hanno edificato qualcosa di speciale.
La psicologia del racconto è infatti un’accettata consapevolezza, che finisce più ad esaltare che a deprimere.
I nonni di Roberta e Sandro sono dei ricchi possidenti agricoli.
Possiedono terra, casolari e sanno che è giunto anche il momento di diversificare, di modificare, di espandersi.
Roberta è una ragazza indipendente. Ha studiato, ha viaggiato nel mondo, dispone di soldi, è libera sessualmente e è pronta a scegliere.
Con la sua macchina spider cerca potere e sottomissione.
Trova Franco, un rozzo meccanico, ignorante, volgare, popolare, maleducato:
“E il quadrettino che ne risulta pare talmente proletario e misero che Roberta rimane interdetta … “ (Pag. 32)
Eppure Roberta, attrata dall’esuberanza fisica, è contrastata nel suo desiderio.
Lo vede come un giocattolo sessuale, come una preda.
Parlano lingue diverse, eppure Roberta, vogliosa, si concede sessualmente con passione lasciva. I suoi amici saranno ricchi, conosceranno l’inglese, passano le vacanze a Londra, ma sono dei debosciati in confronto alla ruspante mascolinità corporale di Franco.
Questo breve racconto parla di loro e del destino predestinato di Franco: il maschio robusto da portare nella casa dei nonni.
La trama è l’elemento secondario: non si entra nel dettaglio, non ci si dilunga a creare delle situazioni allungate, emozionanti o sessuali, ma il tutto si svolge con molta semplicità.
La struttura è quella di tanti brevi capitoli, alcuni veramente di poche righe.
Siamo di fronte ad una trama minimalista, per esaltare invece il massimalismo della parola e della struttura. Giornate intere sono descritte in brevi frasi. Il racconto vive di sottintesi, di quello che non si racconta.
Si scrive l’essenziale per far esaltare ciò che non si scrive.
Le parole sono poche, eppure Arbasino dice tutto e le poche parole sembrano una litania ripetuta invano.
È questa la sua abilità. L’autore si diverte, come negli elenchi infiniti, ricercati, ripetitivi, eppure sono proprio queste liste ad accrescere il valore del racconto: rappresentano il mondo stesso, infinito che non finisce più, ci rendono attoniti, incrementano la tensione, provocano un giramento di testa, un’emozione lancinante.
Le ripetizioni e le liste consentono una profonda ironia al racconto, escludendo la volontà seriosa di concedersi lussi appartenenti solo borghesi.
I suoi elenchi sono impraticabili grammaticalmente per chiunque, eccetto per Arbasino.
Prendiamo le tante “e” congiunzione ripetute infinititamente, non si dovrebbe usare tante volte...
Eppure Arbasino è capace di scrivere senza modestia frasi come:
“… e dei suoi abiti, e come le stanno, e come ha dormito, e come ha digerito, e cosa si sentirebbe di mangiare, e cosa le ha detto il ginecologo, e quello che farà l’estate ventura se la Borsa sta lì, e come metterà a posto il salotto giallo …”(Pag. 53)
Ma la mia preferita è a pagina 65:
“Arrivano infatti di sopra urlando dalla gran festosità la zia Chiarina, la zia Rina, lo zio Luigi, la zia Piera, la zia Jole, lo zio Mario, la zia Marie, la zia Annie, lo zio Gino, lo zio Guido, lo zio Enrico, la zia Pinuccia con lo zio Giampiero, la zia Marisa con lo zio Carluccio, e la Tina, e la Lia, e la Mimì, e l’Annibale …” .
È una vertigine di nomi – inutili nelle mani di altri – poetici per Arbasino.
In questa frase – lunga poco meno di alcuni capitoli – c’è una galleria grottesca ed ironica di maschere. È la ricca borghesia che arriva, che è derisa con una sagacia notevole.
I nomi sono tutti diversi, ma gli zii sono tanti come in una galleria di creature deformate.
In alcuni casi si dilunga amabilmente, in altri invece restringe l’uso della sintassi. In dieci parole abbiamo un carattere, una personalità, una descrizione vivissima anche dei dettagli dei vestiti.
Franco è un esempio. Lui è l’animale, la persona che si trova incastrato, involontariamente, in un mondo molto più grande di lui.
Eppure arriva a picchiare Roberta da un benzinaio, perché quella violenza rozza è amata da Roberta.
La sia personalità è animalesca, virile e spavalda, alternata da momenti inutili di noia. È un bambino infantile, fa dispetti per provocare reazione e attenzione: non chiude l’acqua, non spegne la luce, al ristorante ordina tutto perchè mangia senza controllo.
I litigi, le gelosie si susseguono. Sono troppo diversi. E soprattutto non c’entra nulla con la borghesia lombarda; la critica maggiore di Roberta:
“Non ha il senso della proprietà.” (pag. 155) un delitto di lesa maestà per una borghese arrivista.
La borghesia di Lodi, agricola, rurale, egoista, avaro con gli altri, ha sostegno da solide donne, capaci e volitive: guidano l’azienda e gli affari, gestiscono la famiglia; sono loro a scegliere gli uomini, sono loro a prendere le decisioni. Senza queste donne la borghesia lombarda non sarebbe mai nata.
La nonna, nonostante sia fondamentalmente una contadina, affronta i problemi con atroce femminismo. Arbasino si diverte con lei descrivendola con una ironia esemplare.
Avara, caparbia, fintamente sottomessa, si distrae tagliando le cedole dei buoni del tesoro.
L’ironia con cui è disegnata riproduce una donna di mondo; ha capito tutto.
Lei trova la giusta soluzione, è lei ha dare il colpo di grazia al povero Franco. La nonna decreta la brutale sentenza nei confronti degli uomini della famiglia:
“Tuo nonno e tuo fratello, si sa che sono bravissime persone, non è colpa loro, ma insomma non hanno attitudine… “ (pag. 163)
Ben venga un nuovo esemplare di maschio, uno vero; poco importa se è rozzo, volgare e da ripulire. Nello stesso momento in cui ordina alla nipote di portarlo a casa, pensa già a come utilizzare il nuovo cavallo, tanto a guidarlo ci penseranno le donne.
Il cerchio di Arbasino si chiude. Armato di stile, letteratura e di ironia, il cosmo Lodi è completo. Quella è la sua terra (lui è nato a Voghera), quella borghesia è la sua vita e senza di quella potrebbe scomparire.
Arbasino non ha nulla di rivoluzionario: quel mondo gli piace e il suo desiderio è prendere possesso di qualche speciale esemplare estraneo.
Ma è l’infiltrato che deve cambiare, che deve accettare le regole spietate dei ricchi, fino a diventare lui stesso molto peggio dei ricchi che lo hanno accettato.
Arbasino non nasconde il senso di appartenenza borghese, anzi lo provoca raccontando di cinema, di Attilio Bertolucci.
La bella di Lodi
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Recensione perfetta
Grazie Lele, sei molto gentile.