La guerra di Joseph
- Autore: Enrico Camanni
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2012
La Grande Guerra, cento anni fa, è stata un susseguirsi di atti di stupida follia dei comandi italiani, ma nessun dispendio di vite umane è stato più cinico che in quella sulle Alpi. Tutti sforzi inutili, perché anche superando le cime a tremila metri e oltre non si sarebbe andati da nessuna parte, se non in un’altra valle incassata tra fortezze naturali di roccia, dov’era la neve ad avere l’ultima parola sulla sorte dei combattenti, tutti giovani, ma senza speranze. Le valanghe, in quota, si portavano via i vincitori: ha ragione Enrico Camanni, giornalista, scalatore e cronista di alpinismo, autore nel 1998 di un volume tra storia e narrativa, “La guerra di Joseph”. Quel lavoro, originariamente pubblicato nel 2012, è recentemente riapparso in una nuova edizione (pp. 203, euro 8,90), grazie alla collaborazione tra la casa editrice piemontese Priuli & Verlucca e l’ex concorrente torinese Vivalda, punto di riferimento per gli appassionati delle altezze. Un accordo tra le due aziende editoriali ha permesso alla prima e più importante collana letteraria italiana dedicata alla montagna, i Licheni, di continuare a frequentare le librerie, con vecchi titoli e nuovi.
C’è guerra e guerra, però, e quella sulle cime è la peggiore, sostiene Enrico Camanni, presentando la singolare collaborazione tra i protagonisti del libro. Due che diventarono partner stretti, pur provenendo da mondi molto diversi: un montanaro autentico, Joseph Gaspard di Valtournenche ed uno di città, il conte Ugo Ottolenghi di Vallepiana. Guida alpina valdostana il primo, nobile fiorentino il secondo, di nove anni più giovane, un aristocratico “malato” di montagna. Si erano incrociati nell’inverno 1913, sul ghiacciaio del Lys. Un incontro entusiasmante per il contino, emozionato al cospetto del solido montanaro, non alto ma signorile nella figura e autorevole nel baffo. Era già un mito tra i monti, per aver dominato la cresta del Furggen sul Cervino e per la traversata invernale del Monte Bianco. Di lì a poco sarebbe entrato nella leggenda per la conquista di altissime cime himalayane.
Nel 1916, la guerra li vede in divisa, il richiamato trentaquattrenne assegnato ai servizi presidiari a Roma, l’altro negli alpini, ufficiale di complemento venticinquenne.
Si combatteva nel carnaio del fronte sloveno-triestino, ma ci si uccideva anche sui monti inaccessibili. I vertici austroungarici avevano capito ben prima dei generali italiani la regola semplice in montagna: chi sta più in alto vince. Si piazza sul tetto di una casa, una casa di cento piani e spara su quelli che li devono scalare uno per uno, sotto il fuoco. Così, non si sale. Così, non si passa.
Quattrocento chilometri di creste, dallo Stelvio al Monte Croce Carnico erano stati trasformati in una roccaforte medievale e presidiati dagli schutzen (i tiratori) e dagli jäger (i cacciatori), su postazioni che superavano i tremila metri.
Certo, avevano dovuto abbandonare Cortina, indifendibile. Gli italiani erano entrati nel gioiello delle Dolomiti appena il quarto giorno di guerra, ma le truppe dell’imperatore si erano asserragliate tutto intorno, sulle montagne ad arco. Ed erano valliggiani locali, a differenza delle linee dell’Isonzo e Carso, dov’erano schierati militari delle altre etnie della duplice monarchia.
Fatto sta che alla dichiarazione di guerra, il 24 maggio 1915, con un po’ di iniziativa e un piano di penetrazione si sarebbe potuto avanzare fino al Brennero, ma l’una e l’altro mancarono del tutto e gli stupefatti austriaci ebbero l’opportunità di fortificare le cime. Le operazioni italiane in Cadore furono costrette ad un ristagno improduttivo e non senza perdite.
C’era una porta tra quei bastioni, che si poteva forzare: la Forcella Col de Bois, “appena” a 2300 metri. Tenerla chiusa costava anche ai difensori e dietro si apriva come una promessa la Travenanzes, la valle delle fate del Tirolo. E quella porta aveva una chiave, un torrione merlato a sentinella dei Bois, il Castelletto, lo Schreckenstein, la roccia del terrore.
Le Tofane erano un brutta bestia da strappare agli austriaci, ma il col. Tarditi aveva individuato un muro, che si innalzava a 90° ma che si poteva scalare dalla parte protetta alla vista del nemico, sia pure con difficoltà, guadagnando un vantaggio tattico sul Castelletto. Certo, occorrevano rocciatori provetti, alpinisti di livello superiore. Uno lo aveva sottomano, il sottotenente Ottolenghi, nobile fiorentino. L’altro gli venne indicato da questi, che ricordava la semplicità e la determinazione di Gaspard, colte nell’incontro sul Lys. Con un uomo come quello si poteva andare da qualunque parte, anche in cima alla parete verticale della Tofana di Rozes.
È così che il fante Giuseppe venne strappato alla caserma romana e trasferito tra gli alpini, Battaglione Belluno, destinazione Cadore. Sedici giorni di scalata, cimento arduo in pace, figurarsi in guerra. Tra il giovane conte e il silenzioso montanaro era nata un’amicizia altrimenti impossibile. Avevano favorito la presa del Castelletto. Impresa incredibile. Comunque, non decisiva.
La guerra continuò e Gaspard venne abbattuto non dal nemico e nemmeno dal gelo dell’inverno, ma da un fulmine, a maggio. Un temporale in vetta.
Ferito, ustionato, chiamò per la prima volta Vallepiana per nome. Non l’aveva ancora mai fatto.
La guerra di Joseph
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