La penna d’oro
- Autore: Carlo Sgorlon
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2008
Nel 1963 il filosofo Julius Evola (1898-1974) consegnò ai suoi lettori Il cammino del cinabro, un testo non precisamente autobiografico che assolve al compito di guidare i profani attraverso le opere dell’autore.
Lo scrittore friulano Carlo Sgorlon (1930-2009), nel 2008, ha fatto quasi lo stesso pubblicando La penna d’oro, edito da Morganti.
L’origine del titolo è presto svelata:
“Venni al mondo io, il giorno di sant’Anna, protettrice dei parti. La madrina di battesimo fu una cara amica di mia madre, Cristina Moretti Rismondo, moglie di un capitano di mare istriano, che comandava anche transatlantici del Lloyd triestino nelle ròtte favolose per gli Stati Uniti o i Paesi Asiatici.
Il regalo di battesimo fu una splendida penna stilografica interamente rivestita d’oro, con otto facce elegantemente ornate”.
Almeno all’apparenza, il narratore presenta un profilo molto più coerente di quello di tanti interpreti del Novecento italiano e tra queste pagine espone con fierezza il suo spirito antiprogressista e antimarxista, la sua fede cristiana e le sue convinzioni ecologiste. La religiosità dell’autore, però, non è ben espressa, e il suo lavoro assume a tratti i connotati di una lista di critiche spesso disordinate e non consequenziali, oltre le quali si ergono poche semplici idee, insufficienti per formare un vero manifesto o un ideario concreto per ricostruire il mondo.
Sgorlon si considerava uno scrittore di destra, ma per quanto concerne La penna d’oro parlare di “tradizionalismo” è abbastanza fuori luogo: la sua è una destra conservatrice un po’ cristiana e in fondo priva di grandi argomentazioni contro la modernità. Nel volume non mancano ragionamenti banali come l’assioma del nazionalismo degli slavi, ritratti genericamente come aggressivi e bellicosi.
Per citare un altro esempio, Sgorlon descrive il giovane Pasolini come “un astro che stava spuntando”:
“Benché fosse molto legato al Friuli, lo ammiravo, ma senza sentirlo, perché un abisso di cultura e di mentalità mi separava da lui”.
Ma non occorrono grandi studi di critica testuale per riconoscere, persino ne Gli dèi torneranno (l’opera più esemplificativa del pensiero di Sgorlon), alcuni spunti che sembrano riflessioni pasoliniane sintetizzate, primo tra tutti il tempo ciclico della vita contadina.
Fragili sono anche certe meditazioni sulla natura, tendenti talvolta all’ambientalismo e alle volte a uno pseudo darwinismo sociale. Sgorlon crede che gli sconfitti della storia siano sempre i puri, i fedeli e “i conservatori”, ma scrive:
“Infatti non ho mai creduto all’umanesimo marxista, che spinge alla modificazione radicale della natura per assecondare i bisogni dell’uomo ed eliminare le ingiustizie della lotta per la sopravvivenza, che favorisce i più forti. Ho sempre pensato che la realtà e la natura sono quello che sono, e noi ne facciamo parte. Tanto vale accettarle, perché le ribellioni contro di esse sono per lo più sterili, inutili, generatrici di grandi sconfitte e di paurose tragedie”.
Parole che farebbero diventare “marxista” anche De Maistre...
In questo libro per gli aspiranti scrittori ci sono pochi consigli utili, Sgorlon si pone sostanzialmente come un’autodidatta. Vi è però vera poesia nella spiegazione della genesi del libro L’armata dei fiumi perduti (1985), che racconta l’occupazione della Carnia da parte dei cosacchi dopo l’8 settembre 1943:
“Il momento più straziante di tutta la storia è quello in cui i cosacchi, consapevoli che la guerra è perduta, decidono di ritirarsi assieme ai tedeschi. Ma ritirarsi dove? Essi infatti non hanno più patria. Sanno bene che, se tornassero in Russia, li aspetterebbe il plotone d’esecuzione e il campo di concentramento, perché Stalin li considera dei traditori. È finita la breve, fanciullesca illusione di poter fare del Friuli il nuovo Kazakistan. Non c’è un posto per loro nell’intero pianeta.
Tutti i combattenti della seconda guerra mondiale hanno una patria che li aspetta, vicina o lontana, magari semidistrutta. Persino i nazisti, i guerrafondai, gli impiccatori, gli scannatori, gli inventori dei Lager, hanno un luogo dove tornare. Soltanto i cosacchi non ce l’hanno più. Perciò quando si ritirano in Austria, assieme ai tedeschi, è come se marciassero verso il nulla. Si aprono la strada con le armi, nella valle di Gorto, dove i partigiani tentano di fermarli. Ma in Austria sanno di andare verso un posto che non esiste. Si arrendono agli inglesi con la vaga speranza che per loro venga inventata una patria che somigli a quella antica, in qualche parte del mondo. Invece ciò che li attende è il campo di concentramento, il sistematico sequestro di tutto ciò che possiedono, compresi i cavalli, finché si rendono conto che stanno per essere consegnati ai russi.
Allora un vento di follia collettiva suicida percorre il campo cosacco, e sono migliaia, pare, coloro che si gettarono nella Drava in piena per il disgelo, nel maggio del ’45. A ricordo di quel fatto, la pietà degli austriaci e delle popolazioni locali eresse più tardi un piccolo monumento”.
Questa è davvero una storia che nasce da un’idea originale, con quest’opera Sgorlon si è realmente distinto, meritandosi l’attenzione che ha ricevuto. L’armata dei fiumi perduti è un capolavoro, il più grande tra i romanzi usciti dalla penna dorata, su questo non ci piove.
La penna d'oro
Amazon.it: 14,25 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La penna d’oro
Lascia il tuo commento