La vita non è in rima (per quello che ne so)
- Autore: Luciano Ligabue
- Genere: Musica
- Casa editrice: Laterza
- Anno di pubblicazione: 2013
- Intervista sulle parole e i testi, a cura di G. Antonelli
Parafrasando Gaber, Liga se fosse Dio (e lui potrebbe esserlo, sennò non vedo chi) parlerebbe così, da fratello maggiore che l’ha sfangata: né anacoreta né maudit, un po’ con la testa a posto e un po’ “sborrone”, ma più per questioni di aderenza al ruolo che per altro. Zero sentenze, nessun giudizio universale (a proposito: a che ora è stata poi la fine del mondo?), niente liste di prescrizione, specie se ti tocca tirare in ballo la politica, semmai qualche accenno a sopravvissuti e sopravviventi sull’orlo perenne di una crisi di nervi. Vita vissuta e altrettanto cinema & letteratura prestate alla filosofia spicciola, pane al pane della Bassa, perché in quella Luciano Ligabue se la cava davvero da Dio. Complice la musica, è ovvio: il suo cavallo di troia per arrivare al cuore delle persone (una marea di persone), per bucare lo schermo, barcamenarsi tra palco e realtà come se fosse facile, come uno Springsteen qualsiasi, però nato a Correggio, e hai detto niente.
Il fatto nuovo di questo “La vita non è in rima (per quello che ne so)” (Laterza, 2013) è il taglio: libere divagazioni su testi e pensieri ligabuiani e buona parte della mitologia che gli gira attorno. Un racconto sfaccettato e di prima mano, in cui il curatore (Giuseppe Antonelli) rimane di sfondo, fantasma che raccoglie, assembla senza esserci e non credo per afasia, piuttosto perché 178 pagine di parole (su parole) del Liga risultano alla fine bastanti a sé stesse: un’autostrada di parole, una partitura di parole, un rock and roll semantico, intervallato, in esergo, da stralci (lampi, squarci, pretesti) di altre parole, estratti di canzoni, di libri, di film, tutti (o quasi) a firma Ligabue. Muovendo da un frammento di “Radiofreccia” scopriamo, per esempio come il cantautore da giovane si misurasse già coi venerati maestri:
“Poi capitò che a mio padre venne in mente di regalarmi una chitarra (…) mi sono messo lì con un prontuario di accordi e mi sono reso conto che i cantautori che amavo così tanto scrivevano canzoni che non era poi così difficile suonare”
Da una strofa de “La linea sottile” scopriamo il senso ultimo del suo spendersi tra musica e ulteriori parole:
“In Italia c’è sempre questo bisogno di dire se una canzone è impegnata oppure no. E’ un concetto che a me sembra davvero vecchio. Io, per quanto mi riguarda, sono impegnato a cercare di scrivere belle canzoni. Sono impegnato a scrivere canzoni che facciano stare bene, oppure facciano stare male chi trova modo di confrontarsi con sé stesso: comunque canzoni che tentano di essere utili”.
Ma possiamo anche prendere atto di come sulla scia di un certo simbolismo cantautorale il Nostro abbia sfornato versi che oggi fatichi persino a immaginare come suoi (“E adesso mio buon ciambellano riassumimi gli inviti per la festa”); di come a una domanda di Fernanda Pivano sulla cosa migliore capitatagli nella vita abbia risposto “i miei due bambini” (e lei, delusa, a chiedergli una risposta di riserva); del come e perché sia finito a pulire i cessi durante l’anno di militare, insomma di cose così, e ormai avete bello che capito l’andazzo di “La vita non è in rima”, no? C’è dentro il lato B (nel senso del lato nascosto) della rock star che si racconta senza peli sulla lingua – fragilità, amore, musica, certe notti, sogni di rock ’n roll, morte, successo – e soprattutto fa quello che un cantautore non dovrebbe mai fare: spiegare il senso delle sue canzoni, comprese quelle dell’ultimo album, in uscita a novembre. Scusate se è poco, per un libro solo.
La vita non è in rima (per quello che ne so). Intervista sulle parole e i testi
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