Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
Nel 1956, in occasione del III Congresso Nazionale della Cultura Popolare, Ignazio Buttitta pubblica il “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali” (Edizioni Arti Grafiche Raccuglia, Palermo, traduzione e introduzione di Franco Grasso), noto anche per l’interpretazione che ne diede il cantastorie Ciccio Busacca.
Bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA), si sa, Salvatore Carnevale fu assassinato a colpi di lupara a 31 anni, il 16 maggio 1955, mentre si recava a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini. Era l’alba quando egli percorreva la trazzera di contrada Cozze secche e la sua fine brutale non poteva passare inosservata al poeta di Bagheria che, facendo uso di pregevoli ottave con la classica rima ’ntruccata, volle ripercorrere la vicenda drammatica, mostrando un coraggioso sdegno civile. È così la cronaca a farsi poesia con un realismo a fosche tinte in un’atmosfera intrisa di elementi magico-popolari. Il poemetto, che ha un andamento discorsivo-narrativo ed epico-lirico, i cui ingredienti sono attinti dall’immaginario religioso del popolo, nonché dal testo biblico sul “giusto sofferente”, guarda al personaggio come a un eroe mitologico. Angelo viene chiamato senza essere stato santo e senza aver fatto mai miracoli. Ha qualità mercuriali: sale in cielo senza corde e scale e senza appoggi, da lì discende in virtù dell’amore: la sua energia elargita a tutti. Il tono è accorato fino a raggiungere il massimo di lirismo nell’analogia tra lui e il Cristo: entrambi innocenti e vittime sacrificali per l’opera di redenzione a favore degli uomini. Nettamente si staglia la madre addolorata che, presaga, scioglie il dolore in domande, rivolte al figlio, che non avranno risposta. Lei è come la Madonna dei santini o delle statue che la rappresentano: trafitta da tre spade, chiede, vuole conoscere i motivi dell’uccisione. Vuole trovare l’assassino e vendicarne l’omicidio: le sue parole violente rendono efficace la scena. Tanta è la forza evocativa nella quindicesima strofe che chiude il poemetto in una visione d’insieme, dove le note paesaggistiche si annodano alla tristezza dell’accaduto.
“Sidici maju l’erba ncelu luci
e lu casteddu àutu di Sciara
taliava lu mari chi stralluci
comu n’artaru supra di na vara;
e tra mari e casteddu na gran cruci
si vitti dda matina all’aria chiara,
sutta la cruci un mortu, e cu l’aceddi
lu chiantu ruttu di li puvireddi”.
L’ottava rende ancora più sinistro il fatto con effetti chiaroscurali inesorabili: fa pensare a un luogo solitario l’immagine del castello di Sciara, simbolo del potere, che guarda al mare stralucente come un altare sopra una bara; una gran croce indica il luogo di sepoltura, mentre insieme agli uccelli si eleva il pianto spezzato dei poveri. Ignazio Buttitta ha la spontaneità ereditata dai cantastorie; gli intarsi sono popolari e, nel contempo, egli è poeta colto. Come ha rilevato Cocchiara, è inserito in una realtà che è quella del Porta, del Belli, del Pascarella. Egli assume su di sé il disagio del popolo e lo traduce in versi con una passione civica di elevata dignità letteraria aperta alla speranza in una zona di soprusi feudali.
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