Io faccio il poeta
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Feltrinelli
Nell’introduzione alla raccolta “Io faccio il poeta” (Feltrinelli, Milano, 1972), Leonardo Sciascia pone in evidenza le qualità del poeta Ignazio Buttitta nell’animo e nel fisico, nello sguardo e nel movimento, nelle parole che sa dire di sé e degli altri. Qualcosa di misterioso c’è in lui che ha saputo utilizzare in modo plateale la diffusione mediatica. Egli comunica con il gesto e con le pause, e ammalia il timbro della sua voce che si mescola con le sospensioni e con il respiro. Sono nell’animo di contadini e di contadine le radici della sua poesia:
“C’è il Buttitta impegnato di sempre; ma c’è anche, sempre più carico di rifrazioni, di echi, di rispondenze, di avvertimenti e presentimenti, un Buttitta incontenibilmente assalito dalla simpatia di tutto e di tutti; un Buttitta che risponde con tutti i suoi sensi, con tutto il suo essere, quasi moltiplicandosi, alle cose che lo assalgono”.
Sciascia, a conclusione dell’intervento, cita la poesia U rancuri:
“verità di fronte a se stesso e quindi, contro se stesso, rancore...”.
È un lungo discorso questo componimento indirizzato ai feudatari, è un atto d’accusa spietato ed egli lo muove ponendosi nell’ottica dei braccianti. Sonoci disoccupati a turno, all’asta nelle piazze, i quali aspettano un padrone che pretende il baciolemani. C’è il rancore ostile quando Ignazio Buttita fa parlare i soprusi da costoro subìti nel corso diverse generazioni:
“Non lo dico io / loro lo dicono”
ripete con insistenza e li snocciola in modo travolgente e brutale. Con Lingua e dialettu reagisce energicamente all’omologazione culturale, avendo percepito i segni della crisi del dialetto che avrebbe portato ad un impoverimento linguistico. La poesia, una tra le più note, è una dichiarazione di poetica e fors’anche d’impotenza. Così recitano alcuni versi:
“Un populu / mittitulu a catina / spugghiatilu / attuppatici a vucca, / è ancora libiru. // Livatici u travagghiu / u passaportu / a tavula unni mancia / lettu unni dormi, / è ancora riccu. // Un populu, / diventa poviru e servu, / quannu ci arrobbanu a lingua / aduttata da patri: / è persu pi sempri. // Diventa poviru e servu, / quannu i paroli nun figghianu paroli / e si mancianu tra iddi” (Un popolo / mettetelo in catene / spogliatelo / tappategli la bocca, /è ancora libero. // Toglietegli il lavoro / il passaporto / la tavola dove mangia / il letto dove dorme, / è ancora ricco. // Un popolo, / diventa povero e servo / quando gli rubano la lingua / avuta in dote dai padri: / è perduto per sempre. // Diventa povero e servo, / quando le parole non figliano parole / e si divorano fra loro).
In sintesi, il titolo della raccolta - “Io faccio il poeta” -, oltre a manifestare intenti, indica un’identità ben precisa: l’eticità non disgiunta da una religiosità evangelica. Nun mi lassari sulu si intitola la lirica dove il poeta, ad un certo momento, chiede perdono al Cristo per i crimini compiuti dai rapaci sull’umanità indifesa:
“Pirdunu pi càmmari a gas, / pi l’ingiustizia codificata, / pu ’nfernu addumatu / nto paradiso da terra, / pi Cristu ’ncruci / e lu boia a l’artàru” (Perdono per le camere a gas, / per l’ingiustizia codificata, / per l’inferno acceso / nel paradiso della terra, / per il Cristo in croce / e il boia all’altare).
Quello di Ignazio Buttitta è un modo di vita profetico, sostenuto da un coraggioso impegno. Egli nutre la convinzione che solo la presa di coscienza può portare all’auto-liberazione. In Un seculu di storia, dove il modulo espressivo è densamente declamatorio, la fustigazione si apre alla speranza se è il popolo a fare la sua rivolta, innescando processi di gestione collettiva:
“Cu camina calatu / torci a schina, / s’è un populu / torci a storia” (Chi cammina curvatu / torce la schiena, / se è un popolo / torce la storia).
Io faccio il poeta. Prefazione di Leonardo Sciascia.
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