Lu pani si chiama pani
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
È di Quasimodo la traduzione italiana di “Lu pani si chiama pani”, silloge edita a Roma nel 1954 a cura delle Edizioni di Cultura Sociale. La impreziosiscono alcuni disegni di Renato Guttuso, compare di Ignazio Buttitta. La raccolta, che ebbe un vero successo, fu tradotta e stampata in Francia col titolo Le pain s’appelle le pain (La Nef de Paris Editions, Parigi, 1958).
La studiosa francese Maria Brandon-Albini nelle note introduttive al testo francese ha scritto che sono compresenti nel comportamento dei siciliani tre aspetti: i sogni socialisti delle masse, l’antica rassegnazione popolare, profondamente cristiana, e una visione del mondo primitiva e immutabile. Infatti, su tali componenti s’innestano le liriche di Ignazio Buttitta.
Qui egli riprende l’argomento sulla strage di Portella e compartecipa a un’esperienza concretamente vissuta.
In Lamentu d’una matri i versi mostrano infatti la disperazione di chi vede il proprio figlio ammazzato. È l’accorata pietà, l’estremo cordoglio d’una madre impotente che, almeno per un attimo, vorrebbe donargli il fiato per vedere brillare gli ormai spenti resti della propria creatura. La “coppola” nuova, che aveva indossato per la festa, ormai gli servirà da viatico per il lungo viaggio dell’oltre. Il quadro è quello d’una Sicilia amara dove brutalmente vengono spezzati gli affetti.
In Un Cristu ’ncruci del Cristo, secondo la credenza popolare, è detto che scenderà dalla croce il giorno in cui il popolo trionferà sul feudalesimo così resistente in Sicilia. Da un lato la crocifissione abbraccia le sofferenze degli emarginati, dall’altro la discesa del Cristo dalla croce è portatrice di giustizia e di pace.
Nella Spiranza si ritrova l’antico motivo del ringraziamento a Dio protettore dei raccolti, cantato dai contadini mentre battono le spighe con i loro muli (i quali girano attorno all’aia) e con un forcone separano il grano dalla pula che vola per l’aria al soffio del vento.
Vale ora la pena di volgere l’attenzione al componimento Nun sugnu pueta (lirica del maggio 1954), che segna la rottura con l’astratto lirismo dell’arcadia dialettale. Ecco alcuni versi:
“Non sugnu pueta; / odiu lu rusignolu e li cicali, / lu venticeddu c’accarizza l’erba / e li fogghi chi càdinu cu l’ali; / amu li furturati, / li venti chi stramminanu li negghi / ed annèttanu l’aria e lu celu. (...). // Non sugnu pueta / si puisia significa / la luna a pinnuluni / c’aggiarnia li facci di li ziti; / a mia, la mezzaluna, / mi piaci quannu luci / dintra lu biancu di l’occhi a lu voij” (Non sono poeta; / odio l’usignolo e le cicale, / il venticello che accarezza l’erba / e le foglie che cadono con l’ali; / amo le bufere, / i venti che disperdono le nuvole / e puliscono l’aria e il cielo. (...). // Non sono poeta / se poesia significa / la luna che pende / e impallidisce le facce ai fidanzati; / a me, la mezzaluna, / mi piace quando splende / dentro il bianco dell’occhio del bue).
Ignazio Buttitta, attingendo al realismo, si fa dunque poeta in piazza per aprirsi ai grandi problemi del lavoro e della miseria.
In Pueta e zappaturi può allora considerare lo zappatore come musa ispiratrice. Questi, che scrive sulla terra lasciando segni incisivi, è visto in contrapposizione ai disegni che egli, da poeta, fa nella mente:
“Dammi la manu / tu ca zappi la terra / e manci picca, / maistru e patri / di la rima ricca. // Tu scrivi ntra la terra / e lassi signi, / iu ntra la menti / fazzu li disigni” (Dammi la mano / tu che zappi la terra / e mangi poco, / maestro e padre / della rima ricca. // Tu scrivi dentro la terra / e lasci segni, / io nella mente / faccio i disegni).
È poeta chi si muove nella realtà terragna ed è da essa che Ignazio Buttitta trae linfa per esprimere il senso di una sicilianità fatta di lotte e di conflitti, di lutti e di luce.
LU PANI SI CHIAMA PANI
Amazon.it: 15,00 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Lu pani si chiama pani
Lascia il tuo commento