La straggi di Purtedda di la jnestra
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
Ignazio Buttitta definisce la strage di Portella delle ginestre come la pagina più nera della storia del bandito Giuliano, il quale, si sostiene, con la sua banda sparò sui contadini per ordine di mandanti mafiosi: era in tal modo che speravano di bloccare le lotte per la riforma agraria.
Pubblicato dall’editore Sciardelli (Milano, 1997), il componimento “La straggi di Purtedda di la jnestra” già era stato cantato nelle piazze con la musica originale di Otello Profazio. I Tabema Mylaensis l’avevano registrata nel 1981 per l’album intitolato Gricalata; poi, venne riproposta sia in Allah Muntagna (1997) sia nel disco collettivo realizzato dal Teatro del Sole per i 50 anni dalla strage.
Portella delle Ginestre è invece il dramma in quattro atti, scritto nel 1957 e pubblicato postumo (a cura di E. Buttitta e A. Fanelli, ed. della Fondazione Buttitta e Istituto E. De Martino, Palermo 2000).
L’incipit della lirica, che si snoda in 34 quartine, muove dal luogo, toponimo, è noto, segnato nella mappa a sud di Palermo, presso Piana degli Albanesi. Lo sguardo si posa sulla pietra che, sopra l’erba, evoca il tempo dei Fasci quando il socialismo si diffondevano nelle campagne. In quel medesimo luogo, attorno alla lapide dove allora un apostolo parlava di speranze, il primo maggio di ogni anno erano soliti riunirsi braccianti e contadini. Era giorno di festa e di memoria. Possiamo immaginarli che con i carretti o a piedi o con le biciclette e con le sventolanti bandiere rosse si muovevano in corteo. Non avrebbero mai immaginato ciò che da lì a poco sarebbe successo. Sono essenziali e icastici i versi che si compiacciono di tratteggiare il momento dello svago:
“C’era fudda dda matina, / lu sapeva Giulianu; / ma la fudda un lu sapeva / e ballava nni ddu chianu”.
Divertimento in quel giorno, in un pianoro che univa nei giochi e nelle danze. C’era baldoria attorno alle tavole imbandite di “simenza” e di “turruni”.
Ignazio Buttitta si sofferma nella rappresentazione di questa gioia popolare che coinvolge grandi e
“bamini addummisciuti / nni lu pettu di li matri o a cavalluccio nni li spaddi di li patri”
mentre innamorati con le innamorate approfittano dell’occasione per darsi a effusioni sentimentali:
“Zitu e zita cu la manu / nni la manu cu li caddi, / zitu e zita chi caminanu / e si stricanu li spaddi”.
Tempo di ginestre in fiore a Portella; appena un solo giorno di allontanamento dalla zappa, dalla miseria inginocchiata. È l’oratore di quel giorno, Jacupu Schirò, a dare inizio al comizio. Poche le sue parole, all’improvviso interrotte da spari a bruciapelo. Spara sulla folla Giuliano con la sua banda, spara micidiali raffiche di mitra:
“A tappitu / e a vintagghiu / mitragghiavinu li genti / cmu fauci ca meti / cu lu focu nni li denti”.
Le quartine, dalla sedicesima in poi, sono come fotogrammi d’un film che rapidamente si susseguono in uno scompiglio generale. Il forte dinamismo, convulso e incisivo, vivacizza le scene: spari e grida; sangue dappertutto e disperata ricerca d’un riparo; pianti e rumori di asini e mulini, e di cani che non smettevano di abbaiare. Il poeta si commuove; l’osservatore esterno di prima adesso s’immerge nel delittuoso contesto. Lo vediamo quasi ammutolato, smarrito dinanzi ai corpi straziati:
“Pi discriviri dda straggi / sta chitarra un sapi chianciri, / malidittu stu misteri!”.
Dalla luce al lutto, a dirla con Gesualdo Bufalino; dall’odorosa vita al misfatto della morte. La sentenza è inequivocabile:
“E li morti sunnu vivi, / li tuccati cu li manu: / cu muriu a la Purtedda / fu la mafia e Giulianu”.
A chiusura della storia una meditazione fitta e sofferta s’impossessa del lettore fino a sentire la spietatezza dell’uomo contro l’uomo. I soprusi scuotono la terra e il cielo. Dal crollo della speranza si leva il grido alla storia che fa scorrere fiumi dall’acqua arrossata. Profondamente umana la Portella di Ignazio Buttitta; povero di verità l’eccidio per lo storico Francesco Renda.
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