Colapesce
- Autore: Ignazio Buttitta
- Categoria: Poesia
Ignazio Buttitta, con Giorgio Strehler, aveva già realizzato lo spettacolo Pupi e cantastorie di Sicilia, rappresentato al Piccolo di Milano nel 1956. “Portella delle Ginestre” (1957) e “Il Patriarca” (1958) furono i suoi primi due drammi teatrali. Egli ha poi rielaborato la Vastasata, in tre atti, di autore ignoto. Quando dà alle stampe “Colapesce” (opera in versi e in due tempi stampata nel 1986 dalle edizioni P&M di Messina con introduzione di Melo Freni), il suo linguaggio, vivo e autentico, già godeva di una sicura esperienza in tale forma di scrittura.
Ignazio Buttitta, riprendendo la nota leggenda studiata da Giuseppe Pitrè attraverso la raccolta di varianti colte e popolari, la reinterpreta, offrendo una chiave di lettura che contrasta con le sbrigative credenze sull’accidia dei siciliani.
Colapesce, metà ragazzo e metà pesce, è colui che tradizionalmente accetta di sottoporsi a prove difficili richiestegli da un re capriccioso e tiranno. Adesso, a differenza della leggenda pitreiana, egli adempie al suo destino a favore della comunità d’appartenenza. Il poeta e drammaturgo di Bagheria lo mostra con accenti passionali di religiosa pietà. All’inizio del poemetto Cola, “lignu tortu”, non tiene conto della disperazione materna, il cui cordoglio è iacoponesco, a dirla con Gesualdo Bufalino. Suggestiona l’incisività lirica quando sua madre, che si duole per il figlio perduto in mare, con promesse tipiche della religiosità popolare prega il Signore perché lo salvi dalle insidie del mare:
“Signuri / vi portu na cannila longa / di nterra o tettu: longa! // Giriu i chesi a pedi scaùsi, / mi confessu tutti i jorna!: // Ccà sugnu, mi viditi?// Vui siti u patruni du munnu. // Vui acchianati e scinniti du cielu! // Quannu u vurcanu adduma / vui astutati, / vui faciti a lava ciumi! //Cca sugnu!, / mi viditi? // circati a me figghiu, purtatimilu vivu, / vivu, ccà,vivu!”.
Quando nel secondo tempo la storia riprende in un’atmosfera corale, ognuno dei presenti dice la sua e tutti stanno in apprensione. Cola pesce è vivo: così egli risponde alle invocazoni della madre, tornando sulla terraferma. Il re lo interroga, vuole sapere dalla sua viva voce le prodezze che compie e lo sottopone ad alcune prove quasi analoghe a quelle di cui parla Giuseppe Pitrè. Ecco infine la rivelazione: sotto lo stretto di Messina tre colonne di pietra sostengono l’isola, di cui una è corrosa. È l’accorato dialogo tra lui e Ninfa a manifestare un’intensità di varie emozioni. Il mitico eroe, sia pure con sofferenza, parla d’amore oblativo:
“Vinni p’amuri / cu mia, / lu duluri di Cristu / in l’occhi di Maria”.
La sua decisione suscita la rabbia di Ninfa che aveva amato per poche notti. Lei, incinta, lo supplica di desistere dall’impresa:
“Vinisti pi scipparimi l’anima; / e io / ti cridìa n’ancilu, / un Santu, / un patri, / n’amanti: / un galofaru, ti cridia!”.
Colapesce non cede alle implorazioni e neanche si fa intenerire dalla notizia dell’imminente paternità: egli è consapevole che se crolla la colonna malferma, sprofonda la Sicilia:
“... si cadi, affunna a Sicilia!”.
Allungando le mani per toccare il ventre di Ninfa, esclama:
“Tutti i picciriddi su figgi mei! / I voi annigati?”.
Le parole di Ninfa si fanno sempre più accorate e laceranti, mentre Cola insiste sul suo atto sacrificale, paragonandolo a quello del Cristo:
“Vinni p’amuri / e mi portu cu mia, / lu duluri di Cristu / in l’occhi di Maria”.
È negli ultimi quattro versi del testo che il Nostro poeta presenta la sua morte in modo alquanto problematico, perché in effetti a sopravvivere è la sua esemplarità:
“Colapisci murìu / Colapisci murìu: / nun era santu / e mancu Diu”.
In effetti, egli non è morto dicono alcuni pescatori; altri precisano che è morto e risuscitato.
Dal poemetto, intessuto di espressioni popolari, affiora un’eroica scelta di responsabilità: Cola si sostituisce alla colonna cadente con la forza delle sue spalle. Ogni cittadino, a prescindere dall’essere siciliano o meno, potrebbe riconoscersi in questo mitico personaggio che con eroica azione si consegna alla morte per sottrarre la sua terra a una rovina sicura. L’epilogo ha toni trionfalistici. Colapesce riappare e lancia alla folla il suo proclama. Poi, si addormenta in mare, pago del suo sogno.
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