Le tre notti dell’abbondanza
- Autore: Paola Cereda
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2015
Di libri sul coraggio delle donne se ne sono scritti diversi, così come si sono sempre scritti libri sulle faide familiari, sulla prepotenza degli antichi masculi del Sud. Eppure è sempre mancato qualcosa, un qualcosa che ha che fare con la realtà che si avvinghia alla fantasia e con la fantasia che ridipinge la verità dei fatti, un qualcosa che ha a che vedere con la favola triste dei tempi moderni e il profumo antico delle tradizioni, un gusto di miele, zucchero e bergamotto, unito all’odore della terra quando chiovi.
Vi accorgerete che è sempre mancato questo qualcosa quando leggerete Le tre notti dell’abbondanza di Paola Cereda (Piemme, 2015, pp. 307), un romanzo potente come le donne che ne sono protagoniste, coraggioso come la loro accorata voglia di libertà, vivo come la necessità di non tradire mai se stessi.
Quella che la Cereda narra è la storia di un paesino della Calabria di metà anni ’80, Fosco, e dei suoi abitanti: Rosario, Nuzza, zi’ Totonnu, Bruna e tutti gli gnuri del borgo meridionale. L’autrice, già vincitrice di numerosi premi letterari e finalista al Premio Calvino 2009 con il romanzo Della vita di Alfredo (Bellavite), ci dà subito contezza della sua bravura riuscendo a far volteggiare in queste trecento pagine un buon numero di personaggi, tratteggiandone il profilo fisico e psicologico in maniera impeccabile. La protagonista principale, Irene Rusto, non si cura dei suoi quindici anni e del suo corpo già di donna, prosperoso e portavoce inconsapevole del peccato originale: lei, fresca e passionale, spensierata e volitiva, è troppo occupata a far scivolare la sua mano candida di giovane fanciulla sui fogli di un quaderno arancione, dove prendono forma e colore le visioni rigogliose di una realtà sfilacciata, che sotto la superficiale compattezza nasconde un’intelaiatura fragile, che si sgretola al solo contatto.
Irene vive la sua esistenza di erba mala divisa tra casa - insieme a sua madre Nuzza, alle sorelle più piccole Lorenza e Gianna e al fratello Sebastiano, U Prìncipi - e lavoro, nella pizzeria del padre Rosario. Lì Irene incontrerà per la prima volta Rocco, il primo grande amore, figlio dell’“infame” Ettore Buoi, colpevole di aver tradito la fiducia di zi’ Totonnu, il capo di Fosco.
Già, perché Fosco è quella terra aspra o ostile che è in mano agli gnuri del paese, punto di riferimento: Totonnu. È lui a decidere le sorti degli uomini e delle donne, è lui a decidere chi vive e chi muore, ancora prima che la morte decida autonomamente di posare la sua mano sul capo del disgraziato, ancora prima che Dio stesso pronunci il suo verdetto. Le regole della vita a Fosco sono dettate dalla malavita locale e le faide tra famiglie confinanti non si fanno attendere: affari loschi, misteriose scomparse, guerriglie degne dei migliori clan. Gnuri e cotrari in lotta perenne, non c’è scampo neanche per le anime più giovani e più oneste, come quella di Rocco.
Durante l’annuale pellegrinaggio alla Madonna delicata, accade l’inizio della fine: Irene e Rocco, stesi sotto la panca della chiesa che aveva ospitato per pochi attimi i loro baci infuocati, ascoltano una conversazione tra masculi. Un rapimento, la prena, il riscatto, la muntagna e nu sacc’ e pila.
Le successive tre notti dell’abbondanza segneranno il passaggio definitivo dalla vita alla morte, un punto di non ritorno a cui tutti gli abitanti di Fosco dovranno rassegnarsi. Perché tutti sanno che l’abbondanza viene solo una volta l’anno e che il maiale si uccide solo a capodanno.
All’interno di una trama non solo ben strutturata, ma ricca di contenuti, di particolari sorprendenti e soprattutto pregna di una forte carica emotiva, Paola Cereda ci regala, letteralmente, ampi scorci di entusiasmo, grazie ad Irene, una ragazzina che diventa donna pur mantenendo intatta la sua fantasia di bambina.
“Sempre con la matita in mano, sempre con la testa altrove, così maledettamente densa di carne e polpa”.
È questa Irene, simbolo della Vita che scorre inesorabile in barba al tempo che vuole rallentarne la corsa, è lei la Vita che non lascia scampo, che desidera e che si fa desiderare, mentre combatte contro un presente troppo stretto, troppo cupo, troppo costringente. Lei è la freschezza del cinguettio degli uccelli ed è la morbidezza delle soffici nuvole, dura come la pietra, dolce come le ciliegie in estate. Irene è curiosa del mondo, vuole scoprire cosa c’è oltre la cortina di ferro che Fosco le impone, che i masculi del paese hanno innalzato per tutti gli altri abitanti. Perfino il mare diventa nemico da combattere, tentando di isolarlo staccandolo dal borgo di pietra e cemento: il mare è libertà, il mare non ha padrone, e per questo non può essere domato in alcun modo. L’unico espediente a cui i gnuri ricorrono per ammansirlo è dimostrare di non aver bisogno di lui.
Ma Irene non si accontenta di ciò che vogliono farle vedere, lei, intelligenza viva e incompresa, sguardo guizzante, passo svelto, cristallizza nell’inseparabile quaderno arancione la realtà dipinta coi suoi occhi. Il disegno e la pittura non diventano solo terapia per il dolore, ma si va oltre, si scalvano i confini del possibile, perché
“Le visioni sono desideri utili”
come dice a sua sorella Lorenza, alter ego di Irene. Lorenza è la sua esatta metà, tutta giudizio, razionalità ed entusiasmo dimesso, entusiasmo a cui ha dovuto fin da subito smussare gli angoli, per colpa di una vita che le ha imposto di crescere in fretta, di badare alle anime innocenti di Gianna e Sebastiano.
Nuzza che diventa un marziano dalla pelle blu, Rocco che si colora di rosso passione, l’amato cugino ‘Ngiulinu che si trasforma in un delicato esserino rosa, le case di Fosco con i comignoli storti e fumanti: queste visioni sono la prova che la vita non è tutta lì, che Fosco non è il centro del mondo e che perfino Totonnu e la sua prepotenza di masculo non sono divinità da temere e a cui obbedire a tutti i costi.
Irene dimostra di essere non solo bocca bruciante – e peccaminosa - di verità, ma è anche essa stessa esperienza concreta in atto potenziale: è lei a possedere il coraggio della rivoluzione, l’audacia del mondo che reclama la sua esistenza, è lei che non accetta il compromesso, la sottomissione. E sarà proprio la piccola Irene a convincere Rocco, Lorenza e Angiolino che il limite imposto non è l’orizzonte del mare, né tantomeno si rispecchia nell’autorità di Totonnu o di papà Rosario o del cotraru Felice Lorida, ma siamo noi il nostro limite e la nostra opportunità più grandi, perché siamo noi stessi a scegliere cosa vogliamo diventare.
Mentre Rocco, vicino a Irene, diventa simbolo del desiderio di riscatto e di libertà, lontano dalle regole imposte dalla malavita locale e da una società di uomini prepotenti e loschi, Angiolino, il figlio “malato” di Totonnu e di Bruna, è la personificazione più autentica del coraggio individuale: lui ce l’ha fatta, è riuscito a prendere in mano la propria vita e a non rinnegare la sua natura di uomo sensibile. Angiolino è la libertà di essere se stessi senza tradirsi, è la necessità di ricominciarsi lontano dal livore dell’ignoranza, in quella terra di mezzo tra il bene e il male dove si è semplicemente ciò che si è, liberi finalmente di amare chi si vuole.
Le tre notti dell’abbondanza è un romanzo che aiuta il lettore a capirsi, a guardarsi dentro, prima ancora che a dimostrare che cambiare si può, si deve, senza paura: un omaggio al coraggio delle donne che non accettano un presente corrotto e malato, che si battono per restare in piedi anche in mezzo alla tempesta. Sebbene ci troviamo a metà degli anni ’80, la vivacità pulsante di questo gioiello della letteratura italiana contemporanea ci catapulta nella tipica atmosfera di un film neorealista: la Cereda sembra quasi riprodurre lo scalpiccio dei passi sulle vie deserte di Fosco, lo sciabordio delle onde del mare indomabile, a cui non si arriva da nessuna parte, perché non esiste una scala che porti al mare. Intenso come un film di De Sica, passionale come una poesia di Neruda, dolce e duro come la vita. Questo è il romanzo di Paola Cereda, autrice che si contraddistingue per una scrittura delicata, profumata, gravida di parole che hanno la stessa consistenza granellosa dello zucchero e la medesima fluidità del miele che si mescola alle lacrime calde degli addii.
Le tre notti dell'abbondanza
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