Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi
- Autore: Cesare Pavese
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2021
Se Cesare Pavese fosse nato in questo millennio, non è detto che sarebbe diventato Pavese, ma una cosa è certa: lo avrebbero trattenuto in un reparto psichiatrico più volte durante l’adolescenza per curare una depressione maggiore o bipolare.
Lo avrebbero sicuramente riempito di farmaci, facendogli assumere uno stabilizzatore dell’umore, costringendolo poi a sottoporsi ad almeno due sedute di psicoterapia alla settimana per un anno intero.
Chissà che Pavese avremmo, forse sarebbe diventato un semplice ingranaggio dell’editoria commerciale; altro che lavoro alla Einaudi.
Le lettere raccolte in Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi, il pacchetto edito da L’orma editore nel 2021, sono datate come inizio al 1924, quando un sedicenne Pavese aveva già le idee chiare sul fatto di scrivere, ma era insicuro come tutti gli adolescenti.
Come scrive il curatore Federico Musardo nell’introduzione, il giovane Pavese era colto da improvvisi momenti di autoironia e rivelava una forza vitale che, certamente, appare in antitesi con il triste e sconsolato Pavese adulto.
A proposito della sua ossessione di scrivere lettere, Cesare Pavese scrisse a Carlo e Tullio Pinelli nel 1930:
Io vorrei sapere perché quando scrivo le lettere sono tutto contento e felice e invece "comporre" mi disgusta. È difficile, difficile vivere: io non so come abbiano fatto tutti i nostri antenati, vero è, però, che sono morti.
E già ritroviamo la tristezza compatta, impenetrabile, di un giovane uomo inconsolabile. Pavese spedisce molte lettere al compagno di scuola Mario Sturani, compagno di ginnasio al liceo Cavour di Torino. Iniziato il liceo, Sturani però si trasferisce a Monza.
Passando intanto alla filosofia, tu dici, la poesia è il sentimento della bellezza. Non solo. Essa è il sentimento del tutto, del bello e del brutto, del buono e del cattivo, del giusto e del falso, di quel contrasto tra bene e male che è la vita...
In queste lettere ritroviamo un sedicenne che parla di poesia con cognizione di causa, e non solo. Nell’amico Sturani il giovane Pavese trova subito la persona a cui può confessare che in età adulta vuole fare il poeta, lo scrittore.
Pavese accompagna la successiva lettera a Sturani con una poesia, molto adolescenziale, di pessimismo metafisico, dove già si intravede una cultura erudita, la conoscenza perfetta del latino e del greco. Con l’amico, per diletto, fanno a gara di poesie, come i liceali oggi fanno a gara di post su Instagram.
Sempre durante gli anni liceali, Pavese scrive una sua teoria sull’arte alquanto farraginosa (ma, del resto, se lo dice da solo) e alcune poesie vere e proprie. Uno di questi acerbi componimenti inizia così, proprio con questi aggettivi: “logoro, disilluso, disperato”. In buona sostanza, il Pavese adolescente è già abbastanza simile al Pavese maturo.
Giunto alla maturità classica lo sconforto provato è lo stesso dei maturandi di oggi: solo che per lui lo sforzo mnemonico richiesto dall’impresa è tale da non permettergli di scrivere più poesie, questa è senza dubbio un’aggravante per la sua angoscia esistenziale.
Durante gli anni di studio al liceo D’Azeglio di Torino, Pavese spedisce una lettera lunghissima al nuovo professore Augusto Monti, in cui descrive le sue letture: legge Orazio alternato a Ovidio, studia il tedesco sul Faust di Goethe, divora Shakespeare, legge il Boiardo alternato al Boccaccio e Foglie d’erba di Walt Whitman.
C’è materiale sufficiente perché anche a dei genitori orgogliosi di tanto acume e passione intellettuale sia necessario dire al figlio di prendere la bicicletta e di uscire per strada a prendere una boccata d’aria per almeno un paio d’ore. Intanto allo stoicismo di Pavese fa da contraltare l’umile ammissione del suo ex compagno di scuola che ammette di non aver scritto nessuna poesia durante le vacanze estive e di essere diventato “nichilista”.
Dopo tre anni, in cui ha tradito il fedele compagno di penna scrivendo anche a Tullio Pinelli (che un giorno sarà lo sceneggiatore di Federico Fellini), Pavese ritorna a scrivere a Sturani per dire che in quei tre anni ha capito da sé che è incapace, timido, pigro, malcerto, debole, mezzo matto, che mai, mai potrà ambire a una vita riuscita.
Poco tempo dopo Pavese scrive a Pinelli, finalmente, delle sue avventure con le ragazze, o meglio con le ballerine, in un guazzabuglio di situazioni che non portano un gran bottino. Sempre a Pinelli, il giovane Pavese scrive una cosa sacrosanta per chi ha letto tutte le lettere presenti nel pacchetto: che ama morbosamente lamentarsi con gli amici, in famiglia, con le ragazze che - non a caso - fuggono a gambe levate.
Il peggio è che Pavese non vede che libri, che non sa più vivere che per e con i libri, ragiona coi libri, sente coi libri, ama coi libri, dorme e mangia sempre coi libri: Cesare Pavese, l’uomo libro.
È stupido e fuorviante per chi scrive dire che se nella maturità lo scrittore avesse conservato più autoironia forse non si sarebbe ucciso.
La sua incapacità di amare e a farsi amare ha radici lontane: e a niente serve chiedersi, a parte a ostentare un classismo spaventoso, come mai uno stolto contadino riesca a farsi amare riamato, mentre a Pavese questa cosa così elementare - e necessaria - venga negata.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi
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