Il carcere
- Autore: Cesare Pavese
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Italiana
“Il carcere” è il primo romanzo di Pavese, pubblicato solo alcuni anni dopo la stesura. La vicenda di Stefano, costretto al confino in un paesino remoto delle Calabrie, riflette quella dell’autore che fu confinato a Brancaleone Calabro dal Regime.
Una vicenda politica, che si inscrive nei torbidi anni Trenta del secolo passato e nella lotta senza quartiere del Fascismo contro i dissidenti e in special modo gli intellettuali torinesi gravitanti intorno al Movimento di “Giustizia e Libertà”. Se non fosse che Pavese quei tre anni di confino (commutati poi in uno soltanto) se li guadagnò per aver custodito le lettere compromettenti di una donna che fu, tra i tanti suoi amori infelici, il più profondo, il più impossibile.
Oggi temo che pochi leggano ancora Cesare Pavese; forse a scuola, per completare i programmi. Ma c’è da dubitare che i suoi versi siano ancora reputabili, secondo l’arguta definizione di un grande critico, “droga per liceali”. È cambiata l’Italia, sono cambiati pure i liceali.
Ridotta la riflessione politica a chiacchiericcio inconsulto; in tempi di mid-cult imperante, come si fa a leggere Pavese senza inciampare in ogni sua parola come fosse uno sprofondo da cui sarebbe arduo, ad eccezione di un lettore robusto, di tempra e di intelletto, riemergere intatti? Forse anziché al Pavese politico, sarebbe opportuno ripensare alla sua disperata, inconciliata riflessione esistenziale. Quel senso straziante di sfiorare appena la vita, senza afferrarla, possederla mai (un po’ come Concia, vagheggiata da Stefano, nel presentimento che tutto ciò che è reale è sfuggente e quindi incolmabile nella sua allucinatoria distanza) .
Quel modo pittorico e struggente - ricorda le pitture di Soutine, più che Van Gogh- di osservare le cose, un paesaggio, una donna, guardandole dall’esterno e al contempo patendole da dentro, nel vortice ineluttabile che inghiotte l’esistenza. Un gorgo segreto da cui scaturisce nient’altro che un’angoscia nutrita ora per ora dalla noia di chi scampato a un naufragio ne percepisce ovunque l’imminenza periclitante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà. /Non c’è cosa più amara che l’inutilità.
Sono versi di una poesia, “Lo steddazzu”, ispirata dal vagabondare pensoso nella cruda geografia del confino calabro, ma è anche la tinta dei pensieri di Stefano, il protagonista e alter ego de “Il carcere”, dove leggiamo:
Sarebbe bello far l’amore alla mattina, ma non bisogna, perché poi viene la sera e l’indomani e il giorno dopo….
Che cosa accade - sembra domandarsi Pavese-Stefano - quando l’illusione del tempo e del suo fluire si ferma e il mondo, l’esistenza si riducono a un carcere senza sbarre, a quell’attimo sconfinato di consapevolezza? Quale il senso? Un gesto? Il silenzio? Un atomo impazzito che deviando ci apre un effimero “sgorgo di felicità” (La casa in collina) o piuttosto il vuoto, il nulla? Contemplato tra le arsure di un mare remoto che riflette il nostro profilo estraneo, o nella solitudine di una camera d’albergo in un giorno d’estate come un altro?
Ecco, nelle pagine di Pavese tutto appare già compiuto e scritto, chiaro e indecifrabile . È questa vertigine, la vita?
Prima che il gallo canti: Il carcere-La casa in collina
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