Notte in Arabia
- Autore: Francesco Di Domenico
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2017
Non si sente un eroe Gianmarco Bellini, è l’Italia che dovrebbe considerarlo tale, ma il nostro é un Paese strano, che preferisce l’apparire all’essere ed è pronto a dimenticare chi non si propone con insistenza. Sono passati due decenni prima che il pilota veneto si convincesse a raccontare e dalle conversazioni con lo scrittore Francesco Di Domenico è nato “Notte in Arabia (Bellini & Cocciolone Iraq ’91)", un testo in cui la storia del ragazzo che voleva volare c’è tutta, con naturalezza, senza enfasi e retorica.
Il libro è stato presentato in Senato nel 2011, nel 150º anniversario dell’unità nazionale ed è tornato in nuova edizione, riveduta ed ampliata nel 2017 (168 pagine, 15 euro), per i tipi della casa editrice napoletana Homo Scrivens, aggiudicandosi il premio internazionale Tulliola a Formia.
Occorre tornare al 1990, quando in risposta all’invasione irachena del Kuwait, trenta nazioni misero insieme una forza militare possente per far rispettare a Saddam Hussein la decisione ONU di liberare quello Stato. In autunno scattò l’operazione Desert Shield, che si trasformò a gennaio in Desert Storm, un colpo di maglio contro l’Iraq e il suo dittatore.
Bellini era allora maggiore della nostra Aviazione militare e pilotava uno degli otto aerei multiruolo Tornado, schierati dall’Italia nella prima Guerra del Golfo. Gianmarco non era figlio di un generale o di un alto funzionario, ma di semplici insegnanti di Crosare di Pressana, a sudest di Verona. Il papà è stato sindaco ma non è questo che ha aperto al ragazzo i cancelli dell’Accademia di Pozzuoli. Top Gun della nostra Aeronautica, nel settembre ‘90 era negli Emirati. Il caldo torrido non gli faceva l’effetto che aveva su tanti: lui non sveniva, diceva spiritosamente d’essersi appena fatto alzare la pressione dal gommista.
A pagina 24 appare per la prima volta l’Abruzzese, la coccia dura, che aveva il carattere scritto nel cognome. Maurizio Cocciolone sostituì il precedente navigatore (il Tornado è biposto) ed era e resta per Gianmarco “un meraviglioso e fraterno amico”.
Il “Coccio” ha la testa di ferro, ma è bravissimo nel velocizzare i calcoli per i rifornimenti in volo. Nelle esercitazioni in formazione con altri aerei della coalizione ricevevano i complimenti di tutti, ma è proprio l’efficacia con cui l’aereo di questo equipaggio succhiava in poche decine di secondi 250 kg di carburante avio ad avviarli verso la notte che ha cambiato la loro vita.
Nelle primissime ore notturne del 18 gennaio 1991 c’era molta turbolenza in quota sul Golfo Persico. Il Tornado di “Puffo e Coccio” è l’unico a fare il pieno in volo dal velivolo tanker che sembra ballare nel cielo. Pronti ma soli, decidono di compiere comunque la missione assegnata, mentre gli altri devono rientrare alla base. Sono gli unici “OK”, un aereo italiano deve andare per forza.
Sganciano, vanno a bersaglio, ma sono colpiti. Gianmarco non sa dire se da un missile antiaereo o dalle micidiali mitragliatrici Shilka, di fabbricazione sovietica, che sparano traccianti da quattro canne, cambiando direzione continuamente (in Vietnam facevano strage anche di bombardieri).
Eiezione, paracadute, forte impatto a terra, stordimento. Si ritrova circondato da militari. Lo scambiano per un pilota israeliano e rischia la morte. Si accertano che non sia circonciso e allora sono solo percosse dagli iracheni inferociti dai bombardamenti della coalizione. Via la tuta di volo, addosso quella arancione dei prigionieri. Intravede altri piloti, conciati male, interrogati, picchiati, ma di Maurizio niente. Sarà vivo?
Gli fanno domande, sono insistenti. Gente in borghese pretende di fargli registrare dichiarazioni contro l’aggressione alleata alle donne e bambini d’Iraq. I militari vogliono sapere da dove partono gli aerei, quanti sono, di che tipo. Prende tante botte, non capisce nemmeno da chi, ma ripete soltanto “sono il maggiore Gianmarco Bellini dell’Aeronautica Italiana, matricola… sono un soldato, eseguo ordini”.
Nella prigione maleodorante della polizia segreta e in quella di Abu Ghraib a Baghdad, Bellini resta 47 giorni, scalzo, con una tuta arancio, al freddo, senza coperte e con una misera brodaglia da mandare giù. Giornate e notti interminabili, col pensiero costante della morte e la consolazione solo di poter conversare con altri prigionieri della coalizione. Negli ultimi tempi della detenzione capiscono che vengono considerati scudi umani e si aspettano una raffica dagli iracheni, per rabbia, crudeltà o vendetta.
Invece, con tanta sorpresa ed anche un po’ di timore che possa trattarsi di una beffa crudele, le condizioni della prigionia migliorano appena, sebbene ora ci sia il rischio che la folla possa invadere la prigione per linciarli. Solo nel momento in cui viene consegnato alla Croce Rossa Internazionale il maggiore viene informato che Cocciolone è vivo e già in viaggio verso la Giordania, con un altro gruppo di prigionieri. Si ritrovano solo sulla nave ospedale americana Mercy. Un lungo abbraccio silenzioso.
Oggi Gianmarco Bellini vive negli Stati Uniti, in Virginia, coi gradi di generale dell’Aviazione nel cassetto. Venti anni fa, l’avremmo pensato destinato ad una carriera militare ancora più brillante. Eravamo tutti orgogliosi del suo, del loro, contributo nazionale alla causa internazionale. Ci sfuggiva che la nostra Costituzione non ammette la guerra. Non sono stati considerati prigionieri, ma ufficiali a disposizione del Comando. Mansioni ordinarie.
Notte in Arabia. Vita e storia di Gianmarco Bellini, il ragazzo che voleva volare (Bellini & Cocciolone, Iraq ’91)
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