Tra le tracce della Maturità 2024 è stata proposta per l’analisi del testo la poesia Pellegrinaggio di Giuseppe Ungaretti, appartenente alla raccolta del poeta L’Allegria (1931), successiva a Il porto sepolto (1916), dedicata all’esperienza dell’autore sul fronte della Prima guerra mondiale.
La lirica, corredata dalle classiche indicazioni di data e luogo, appartiene alla stagione dell’Ungaretti soldato. L’autore si trova a Valloncello, una località isolata nei pressi di San Martino del Carso. L’esperienza sul fronte del primo conflitto mondiale è dunque determinante per comprendere la prima fase della poetica ungarettiana.
Nell’analisi Pellegrinaggio può essere posta in relazione con altre poesie scritte da Ungaretti in trincea, quali Veglia, Sono una creatura, Fratelli, Soldati.
La fragilità della condizione umana, la caducità dell’esistenza sono due chiavi di lettura importanti del componimento che si inserisce nella poesia di guerra; a tal proposito è interessante approfondire come il tema della guerra sia stato narrato dai poeti italiani.
Vediamone testo, analisi e commento, analizzando in particolare il campo semantico della luce nella poetica ungarettiana.
“Pellegrinaggio” di Giuseppe Ungaretti: testo
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba.Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggioUn riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia.(Valloncello dell’Albero isolato, il 16 agosto 1916)
“Pellegrinaggio” di Giuseppe Ungaretti: parafrasi
Nascosto in agguato tra i cunicoli (“budella”, metafora) della trincea ho trascinato il mio corpo morto, simile a una carcassa (metonimia), nel fango, ormai consumato come la suola di una scarpa o come un seme di biancospino (la spinalba fa riferimento ad Alessandria d’Egitto, città natale di Ungaretti, è un fiore che cresce nei cortili egiziani).
Ungaretti, uomo che a stento sopravvive nell’angoscia, in fondo ti basta un’illusione per ritrovare il coraggio di vivere.
Un faro laggiù, nel campo nemico, sembra trasformare la nebbia in un mare.
“Pellegrinaggio” di Giuseppe Ungaretti: analisi e commento
La lirica Pellegrinaggio presenta la sintassi della parola nuda, tipica della poetica ungarettiana che riduce il verso a frammento, a unico sintagma di senso. Troviamo termini isolati nello spazio bianco di cui risalta il significato, le parole sono portate così al loro massimo livello espressivo ed evocativo.
Lo schema metrico è quello del verso libero, emblematico della poetica di Ungaretti. Gli spazi bianchi diventano a loro volta “voce” perché richiamano la forte carica espressiva del silenzio.
Il campo semantico principale è quello della guerra, rimanda dunque per analogia a immagini crude, di violenza e sangue: “budella”, “macerie”, “carcassa”, ogni termine sottintende una visione, rimanda a qualcos’altro. Il medesimo campo semantico di Veglia in cui Ungaretti narra di aver trascorso un’intera nottata buttato al fianco di un compagno “massacrato”, con la bocca “digrignata”.
La menzione delle macerie rimanda a un’altra celebre poesia ungarettiana, San Martino del Carso, nel quale è presente riferimento a qualche “brandello di muro” tramite metonimia per indicare le case ormai sventrate dalle bombe, ridotte anche loro in “carcasse”, proprio come i corpi umani dei soldati.
Le figure retoriche presentate in Pellegrinaggio sono una chiave di lettura importante della poesia, in particolare la similitudine del “seme di spinalba” che rimanda alla città natale dell’autore, Alessandria d’Egitto, e sembra richiamarlo alla vita mentre attorno a lui sembra trionfare uno scenario di morte. Il “seme”, poi, rappresenta l’immagine vitale per eccellenza, un simbolo di rinascita.
La differenza tra Pellegrinaggio e le poesie precedenti de L’Allegria, appena menzionate, è data dal fatto che Ungaretti in questa lirica non si rivolge ad altri, non fa riferimento a compagni, soldati o fratelli, né alle lettere di una corrispondenza, ma è a sé stesso che si rivolge con un’auto-apostrofe: “Ungaretti”, che lo richiama a sé. E dopo questa auto-invocazione si dà una definizione quale “uomo di pena”, per descrivere la propria misera condizione di soldato, costretto a sopravvivere a stento nel fango tra i cadaveri dei compagni massacrati, in balia di un non meglio precisato destino che condanna a morte alcuni, mentre ne favorisce altri. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, scriveva l’autore in Soldati, riassumendo in quattro brevi versi liberi la condizione mortale. L’inquietudine dettata dalla percezione della propria mortalità, del proprio effimero destino, è restituita qui dall’espressione “Uomo di pena”.
L’auto-apostrofe è importante perché, proprio come in Sono una creatura, Ungaretti ricorda a sé stesso di essere un uomo; la poesia diventa la sua maniera personale di combattere l’annullamento rappresentato dalla guerra, che sembra privare i soldati della loro vera identità, rendendoli simili a bestie o a carne da macello. Il riferimento alle budella presente nei primi versi è una metafora che indica i cunicoli nei quali l’autore si trascina, in trincea, col suo misero corpo: il rimando alla fisicità è importante perché richiama la caducità della vita, è il corpo che muore, viene ferito, danneggiato ucciso.
Quello stesso corpo che il poeta definisce mediante metonimia “carcassa”, pari a quello di un animale pronto a essere divorato dagli avvoltoi. Nei primi versi si descrive come un morto, ma successivamente con l’auto-apostrofe “Ungaretti” si richiama imperiosamente alla vita. A riportarlo alla vita è anche l’illusione, l’immaginazione, ciò che di fatto nutre la sua poetica: mentre si trascina nel fango della trincea scorge in lontananza una luce, proviene dal campo nemico, e sembra trasformare la nebbia circostante in un mare. Il mare di nebbia è un riferimento alla poesia di Charles Baudelaire, Il crepuscolo del mattino, ma possiamo leggervi anche un rimando pittorico: il celebre quadro Il viandante sul mare di nebbia (1818) di Caspar David Friedrich che sembra riprodurre una condizione esistenziale, simile a quella ungarettiana: l’uomo è solo, isolato dinnanzi all’ignoto, sembra essere in balia del proprio destino.
La luce nella poesia di Ungaretti
Il faro che rischiara la nebbia, nel finale, rappresenta la luce che è un tema chiave della poetica ungarettiana. Può essere letto, per analogia, come il fatto che il poeta abbia ritrovato sé stesso tramite la poesia: la scrittura, nell’esperienza del fronte, è ciò che salva il soldato, gli ricorda di essere uomo, di essere vivo. In Veglia Ungaretti ricorda che, durante la notte gettato accanto al cadavere del compagno morto, ha scritto “versi pieni d’amore”. Dunque la luce che il poeta scorge nel finale di Pellegrinaggio può essere intesa come la luce salvifica della poesia, la cara illusione che lo salva dall’angoscia, non a caso intravista dopo il richiamo imperioso a sé con il perentorio: “Ungaretti”.
La forza salvifica della luce che si metafora della poesia è ben esplicitato ne Il porto sepolto dove l’autore afferma:
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Ungaretti ritorna alla luce, quindi alla vita, grazie alla forza della poesia. Era il suo manifesto di poetica: il Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti non è un luogo fisico, ma è un luogo simbolico, la fonte di ispirazione, dove il poeta può essere a contatto con la sua anima, la rappresentazione di un viaggio introspettivo. Il Porto Sepolto era appunto il titolo della prima raccolta poetica ungarettiana, pubblicata a Udine nel 1916, che comprendeva un’ottantina di pagine numerate scritte durante i lunghi mesi trascorsi in trincea. Nelle prime poesie Ungaretti coglie un attimo, come lui stesso scrive, “era il paesaggio colto nell’attimo, un attimo che si protraeva in me in modo infinito”. A quella prima raccolta avrebbe fatto seguito L’allegria di naufragi (1919), in seguito confluita nella più ampia L’Allegria (1931). Il titolo Allegria di naufragi alludeva alla condizione esistenziale percepita dallo stesso Ungaretti, secondo cui la vita è un viaggio (il titolo “Pellegrinaggio” sembra rimandare a questa concezione), ma tutto è destinato a essere travolto dalla forza inesorabile del tempo: è un “naufragare”, che rende però prezioso l’attimo che fugge.
La luce che risana le ferite inflitte dalla vita, come una sorta di dolce oblio, è presente anche in un’altra lirica di Ungaretti, Dove la luce, una poesia d’amore contenuta nella raccolta della maturità Sentimento del tempo (1933). La luce, nel componimento, sembrava essere una promessa di paradiso: il poeta promette di condurre la donna sulle “colline d’oro” (immagine che ha ispirato la canzone di Battisti, “La collina dei ciliegi”) lontano dalle brutture del mondo, dalle angosce e dai rimpianti. La luce diventa epifania nell’ultimo Ungaretti, come testimoniato nella splendida lirica che dà il titolo alla raccolta Sentimento del tempo, che può essere letta come testamento poetico dell’autore:
E per la luce giusta,
Cadendo solo un’ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura (...)
Anche in questa poesia Ungaretti racconta un momento di contemplazione interiore, innescato dalla visione di un tramonto. Ritorna il campo semantico della luce: la “luce giusta” è la luce violacea del tramonto che sconfina dell’ombra e ispira una riflessione sulla caducità della vita. La morte si avvicina e il poeta immagina che lo accolga con un bacio. Il campo semantico della luce è dunque il vero filo conduttore della poetica ungarettiana, dalla giovinezza alla maturità, da Il porto sepolto a Il sentimento del tempo.
La narrazione della guerra nei poeti italiani: parallelismo Ungaretti-Rebora
Ungaretti è noto come il cantore per eccellenza della guerra, la sua nascita poetica si deve alla trincea della Prima guerra mondiale; ma non è stato il solo a menzionarla nei suoi versi. Tra i poeti italiani possiamo ricordare Salvatore Quasimodo, soprattutto nella seconda fase della sua poetica dettata dall’esperienza della Seconda guerra mondiale, dedicata alla poesia civile, in cui troviamo liriche cariche di significato etico quali Uomo del mio tempo e Alle fronde dei salici in cui è presente la fortissima immagine dell’urlo nero della madre che corre incontro al figlio crocifisso al palo del telegrafo: una sinestesia che ci restituisce tutto il carico di dolore umano della guerra.
Proprio come in Fratelli di Ungaretti, anche Quasimodo narrando il tema della guerra, pur in tutta la sua brutalità, tende a risvegliare nei lettori un sentimento di solidarietà che si scopre nella comunione di un unico destino, quello umano.
Anche nella lirica Il mio paese è l’Italia, Quasimodo rammentava la distruzione portata dalla guerra per suscitare un sentimento patriottico nei cuori dei concittadini che si apprestavano ad assistere alla nascita della Repubblica italiana: nel finale rimandava al lutto delle madri (che richiama l’urlo nero e il lamento d’agnello dei figli, delle Fronde dei salici) e cantando il dolore di un popolo rendeva omaggio alla vita.
Anche la poesia di guerra di Ungaretti, che pure descrive la morte nel suo aspetto più atroce, aberrante, orrorifico (ci descrive i cadaveri, le case sventrate, i compagni agonizzanti con i corpi squarciati), in fondo è un canto di vita, ce lo testimoniano tutti i riferimenti vitali contenuti nelle sue poesie, spesso mascherati attraverso metafore o similitudini, come le lettere piene d’amore, la visione della luna o, per l’appunto, il faro che squarcia la nebbia in Pellegrinaggio.
Un altro cantore italiano della guerra è stato Clemente Rebora, con la poesia Viatico che può essere posta in relazione con Pellegrinaggio di Ungaretti per il suo sottotesto religioso. Il titolo ungarettiano, “Pellegrinaggio”, fa riferimento al percorso del pellegrino del penitente verso un luogo sacro: anche il poeta soldato striscia nel fango, in ginocchio, compie la propria personale via crucis, prima di vedere la luce. Rebora nella sua poesia, che reca nel titolo il riferimento a un sacramento cristiano, il conforto che si dà ai moribondi, descrive una scena altrettanto drammatica. Anche Clemente Rebora, proprio come Ungaretti, fu soldato sul piano del Carso, presumibilmente assistette alle stesse scene di distruzione e devastazione proposte dall’autore de Il Porto Sepolto.
In Viatico, con un procedimento simile a quello ungarettiano, Rebora descrive l’agonia di un soldato mutilato (il suo corpo non è più corpo, è “melma e sangue”, al pari della carcassa menzionata da Ungaretti), eppure descrivendoci la morte in tutta la sua inenarrabile atrocità, l’autore ci sta narrando una maniera d’esistere. Si tratta dell’identica rivolta dell’uomo presente alla sua “fragilità”, narrata in Fratelli: anche Rebora richiama a un sentimento di solidarietà nella comunione umana del dolore.
Il dramma della guerra diventa un’occasione di riflessione umana e di esaltazione dell’esperienza vitale. Più pessimistica è invece la visione della guerra di Eugenio Montale, espressa ne La Bufera e altro, ben evidenziata da poesie come Il sogno del prigioniero che ci suggerisce che, in fondo, il vero incubo è la realtà. Eppure anche ne Il sogno del prigioniero di Montale rimane viva, sopra ogni cosa, un’immagine di speranza che si fa presagio di salvezza: l’uomo prigioniero sogna una donna, l’illusione confortante di un focolare, un pasto caldo cucinato con amore. La figura femminile, in Montale, rappresentata dal nome senhal di Clizia (è lei il girasole, secondo le Metamorfosi di Ovidio), rappresenta la via di fuga da un mondo in cui dominano distruzione e barbarie.
Interessante notare come in tutti questi testi lirici, che pure narrano la terribile devastazione della guerra, alla fine sia comunque l’umanità a vincere: nel mezzo dell’orrore l’uomo ricerca l’amore, di fronte al silenzio della morte l’essere umano compone un’ode senza fine alla vita. La parola del poeta è luce, come insegna Ungaretti nel suo manifesto di poetica de Il Porto Sepolto, pure dinnanzi al buio più profondo.
La guerra nell’arte pittorica: da Ungaretti a Picasso
Se dovessimo trovare un corrispettivo pittorico della narrazione della guerra sarebbe sicuramente il quadro Guernica di Pablo Picasso, esposto per la prima volta nel maggio del 1937 all’Esposizione Universale di Parigi. Un quadro, tutto sommato profetico, perché già prefigurava la devastazione della Seconda guerra mondiale ormai imminente. Nell’ideale dell’artista doveva essere un’opera contro la guerra, prendeva spunto da un fatto reale: il bombardamento della città di Guernica nel corso della guerra civile spagnola. Picasso riesce a dare materia al caos, attirando l’attenzione dell’osservatore sul dramma vissuto dalla popolazione civile. Non raffigura un cumulo di macerie, ma - guardando bene - possiamo vedere l’immagine di una madre che stringe tra le braccia il figlio neonato, il cadavere di un soldato calpestato dagli zoccoli di un cavallo. Nel mezzo della devastazione, però, anche Picasso riesce a dare spazio a una prospettiva salvifica: la mano sinistra del soldato stringe un fiore, la madre culla il suo bambino (promessa di futuro e di vita, come in una moderna natività), e tra gli animali, il cavallo (simbolo della Spagna) e il toro (simbolo di sacrificio), fa capolino una colomba ferita, simbolo di pace. Anche Picasso, nella sua più brutale raffigurazione della guerra, lanciava un messaggio di vita: nella cupa rappresentazione della Guernica ci sono cadaveri, distruzione, ma anche vita che non si arrende alla morte. Proprio come nella poesia di Ungaretti, anche nella Guernica di Pablo Picasso viene posta al centro una luce: c’è una lampadina a olio, tenuta dalla mano spettrale di una donna. Appare proprio come il faro che rischiara la nebbia nella visione del poeta.
La lampada a olio, nel nero dominante nella Guernica, simboleggia l’energia vitale dell’universo che non si spegne neppure nel mezzo dell’orrore più oscuro.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Pellegrinaggio” di Giuseppe Ungaretti: testo e analisi della poesia all’Esame di Maturità 2024
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