Il Professor Giuseppe Manitta, poeta e studioso di testi classici della nostra letteratura (da Boccaccio a Leopardi a Carducci, fino al Novecento) e direttore editoriale del marchio Il Convivio, ha curato l’edizione critica, l’introduzione e il commento delle Rime (2024) di Antonio Philotheo Homodei, scrittore siciliano del 1500.
Il corposo volume di seicento pagine, costato a Manitta più di dieci anni di lavoro, colma un’importante lacuna degli studi sul petrarchismo rinascimentale, poiché il corpus poetico di Omodei è rimasto inedito per secoli, nonostante l’autore fosse ben inserito nel dibattito letterario a lui coevo: riscoperto dallo stesso Manitta con il recupero del manoscritto autografo Capponiano 139, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, vede finalmente la luce con questa pubblicazione.
Philotheo Homodei, poeta, narratore ed erudito di pregio, era nato a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, intorno al 1515, e dopo gli studi universitari di letteratura e giurisprudenza aveva lasciato la sua terra per approdare a Roma, inserendosi negli ambienti culturali della città papalina, dove concentrò la sua attività letteraria tra il 1550 e il 1650, pubblicando un romanzo, una Descrizione della Sicilia, la Vita della beata Chiara da Monte Falco e il Canzoniere intitolato Romana Aetna Travolta.
Il soggiorno romano di Omodei si rivelò da subito foriero di arricchenti opportunità di studio e di frequentazione con molte personalità di rilievo, tra cui Annibal Caro, molti ecclesiastici, dame e nobiluomini della corte di Ippolito II d’Este. Tra il 1568 e il 1570 il poeta venne poi coinvolto in un processo intentato all’autore di un libello contro il papa Paolo IV, episodio che segnò il suo declino come intellettuale, mettendolo in cattiva luce presso gli inquisitori. Un’ulteriore motivazione riguardo all’oblio in cui sprofondò il suo nome fu l’errata attribuzione delle sue opere per una quasi omonimia con Giulio Filoteo, questione dibattuta durante tutto il XVIII secolo.
Il Codice Capponiano 139, da cui Giuseppe Manitta ha recuperato il corpus delle Rime, era autenticamente autografo, scritto in bella grafia e preparato per la stampa, con copertina cartonata e rivestita in cartapecora, suddiviso in quattro parti. Dedicataria era la donna amata da Omodei, Antea, il cui nome fu traslato dal poeta in Aetna in omaggio alla sua Sicilia. Il sentimento provato per la colta dama romana si trasformò da un amore vivo e partecipato a improvvisa freddezza, anticipatrice dell’abbandono: da bruciante come la lava etnea fino al gelo della neve, testimoniato dai vari sonetti di stile petrarchesco della prima parte del Codice:
Laccio non mai sì stretto strinse Amore, / Nel dolce inganno, e mai sentì tal foco / Vulcano, Aetna, e Vesuvio, od altro loco, / A par di quel mi stringe, e bruggia il core. // … Te sol al mondo adoro, cerco, et amo.
Già nella seconda parte, il nome della donna non compare più, sebbene le poesie sentimentali siano ancora predominanti, e invece continua a prevalere l’imitazione dell’Aretino:
Voi ch’ascoltate in rime sparse, il suono / Del mio fiero languir, con tanto Ardore…
Nella terza parte il modello ispirativo è quello dei Trionfi, mentre nell’ultima sezione l’artificio retorico è più evidente nella costruzione di acrostici riferiti ai personaggi illustri conosciuti a Roma.
Omodei usava celare il suo nome e quello dell’amata con pseudonimi anagrammati, in una sorta di gioco linguistico che comunque traeva sempre ispirazione dal Petrarca, attraverso furti, ricalchi e riprese dei versi più noti, sia nella struttura (metrica e rime) che nel lessico. Ma la tradizione petrarchesca veniva spesso rimodulata da Omodei, e messa in relazione a citazioni di tradizione diversa e a poeti coevi che si muovevamo nello stesso ambito imitativo.
La puntuale e approfondita introduzione del curatore Giuseppe Manitta ne offre particolareggiata testimonianza, insieme ad altri prestiti danteschi, ariosteschi, da Pulci e Sannazaro, indicativi di quanto l’autore da lui preso in considerazione fosse esemplarmente inserito nella produzione letteraria cinquecentesca.
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