S.
- Autore: Gipi
- Genere: Fumetti e Graphic Novel
Questo racconto disegnato, biografico e autobiografico, è ambientato a Pisa e dintorni, tra il 1943 e i primi anni di questo secolo: dai raid aerei degli Alleati sulla città, cui sopravvissero i futuri genitori del narratore-autore, fino ai momenti immediatamente successivi alla morte del padre di costui. Un tema tosto, dunque, un tessuto di memorie che molti preferiscono non rivangare, ma che vanno riportate alla luce del sole, a futura memoria. Ci sono, ovviamente, vari modi per farlo e Gipi lo fa nel migliore dei modi possibili, cioè con quel lirismo genuino, asciuttissimo e quel pizzico di feroce umorismo che lo contraddistinguono.
Non so se i pisani parlino spesso tra loro, almeno, o con chi gli vada più a genio di quello che passarono durante la II guerra mondiale (con me, mica tanto, forse anche perché non ci sono quasi mai e sempre per poco quando ci sono, ad eccezione dell’amico Bepi Mati, che poi è grossetano ed è sopravvissuto ad un raid aereo su Grosseto, non molto diverso dell’apocalittico bombardamento subito dai pisani, il 31 agosto ’43). L’aggettivo apocalittico sarà pure scontato ma non fuori luogo:
«In cinque minuti di bombardamento vengono uccise cinquemila persone» (S., p. 49).
Forse le cose non sono andate proprio così, molti parlano di “soli” 900 morti circa in quell’occasione – ma l’apocalittico ci starebbe, anzi ci sta lo stesso.
Io mi son fatto l’idea che molti pisani patiscano tuttora una sorta di shellshock a lunghissima scadenza, anche i più giovani che quelle cose non le hanno vissute di persona. È forse questo che spiega, almeno in buona parte, un certo pisanismo militante che molto spesso è vera e propria pisanite: croci pisane alle finestre, sulle borse delle signore e delle ragazze, sui bicipiti e perfino sui gomiti dei ragazzi e nelle collanine di tutti, bimbi adulti e vecchi pure (anzi: questi un po’ meno, o quasi per niente, mi sa). Una specie di scaramantica rivalsa sulla tragedia del passato ancora troppo vicino, attraverso la rivendicazione stentorea di un passato più remoto e “glorioso” e i gesti propiziatori di un presente-futuro altrettanto esaltante.
Va detto che nelle storie di Gipi e innanzitutto in questa qua non si scorgono croci pisane. Gipi ha un altro modo di fare, che non so quanto venga apprezzato dai suoi conterranei (molto, spero: se lo merita eccome). E per ringraziarlo di cuore e tenere stretti i suoi regali non serve essere né pisani né italiani (io, per dire, sono portoghese), perché Gipi si dimostra un narratore di massima grandezza, in questo album come in tanti altri – mi viene in mente, ad esempio, Hanno trovato la macchina, un racconto disegnato che supera l’Hemingway migliore e sta ai livelli del migliore Maugham.
Volete qualche esempio lampante della distinzione proppiana tra fabula e intreccio? S. li offre a bizzeffe ed eccellenti. Ci sono, certo, altri motivi migliori per farlo, ma solo per questo andrebbe usato nelle scuole di tutti i gradi, compresa l’università, dove il fumetto continua a essere visto come il fumo negli occhi (con le rare lodevoli eccezioni che si conoscono, ma che seguitano ad essere proprio quello, eccezioni). Ho prestato e raccomandato, qualche anno fa, Hanno trovato la macchina a un paio di colleghi dell’università di Pisa: non conoscevano affatto l’autore, anche se comperavano «La Repubblica» ogni giorno (se poi la leggevano e come la leggevano, questo non lo so), allora piena di eccellenti disegni e di eccellenti storie scritte e disegnate proprio dal nostro e mi pare che non abbiano capito Hanno trovato la macchina, anzi che non l’abbiano preso in considerazione (per non essere volgare) manco di striscio.
Io però insisto: questo Gipi è buono quanto il Maugham migliore, un Maugham del tempo dei videogiochi e delle emoticon. In effetti, usa un’emoticon – una soltanto, una volta sola, con quel preciso dosaggio degli ingredienti che è proprio di un grande chef della comunicazione quale egli è – nel testo che accompagna una delle vignette di S., a p. 87, con la stessa efficacia espressiva con cui Apuleio si serviva di un’allitterazione. Lo stesso si dica dell’impressiva dilatazione grafica, dello “sfilacciamento” con cui l’aggettivo antichissima diventa AN TI CHI SSI MA, sulla pagina immediatamente precedente. E del cupo splendore umoristico di quel macabro vociare (chi leggerà la storia capirà perché lo dico macabro) Sono il farmacista! Il marito della moglie del farmacista! che si trova a p. 30.
Un altro aspetto stilistico notevole riguarda certe cancellature del testo lasciate lì in bella mostra (un espediente cui anche Pazienza faceva ricorso spesso): parole eliminate con un frego o uno scarabocchio, non certo per sciatteria, anzi come segno voluto di spontaneità. Le troviamo alle pp. 13, 15-17, 75, 85 e solo lì – anche questo non per caso, ci scommetto. E potrei continuare così fino a sfinirmi e sfinirvi, ma per ora basta: leggete S. anche voi e segnatevi da soli, se vi va, quello che più vi garba – e c’è tanto, ma proprio tanto, da gustare e custodire con rispetto e gratitudine.
Un inciso: ho potuto indicare le pagine di S. in cui si trovano gli esempi precedenti perché le ho numerate tutte a matita con la mia manina, giacché Gipi non lo fa mai. Se lo devo fare con le sue storie, mi sta anche bene: con altri che seguono lo stesso sistema lascio perdere, semplicemente, e in certi casi magari un po’ m’incavolo.
A questo punto, può darsi che qualcuno sia tentato di domandarmi: «E tu, come mai parli solo della scrittura? Sui disegni non dici nulla?»
Il fatto è che quando parlo di come scrive Gipi sto parlando di come disegna e viceversa. Lui non scrive, lui non disegna: scrivedisegna. Anzi, scrivedisegnecolora. Da dio.
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