Stirpe di eroi
- Autore: Massimiliano Colombo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2018
Roma, 2300 anni fa, quando non era ancora caput mundi, ma si avviava a conquistare il predominio sui popoli italici. Massimiliano Colombo è un cultore di storia antica e ha dato alle stampe per gli ottimi tipi Newton Compton il secondo romanzo storico sull’urbe repubblicana, “Stirpe di eroi” (settembre 2018, 386 pagine, 12 euro il volume cartaceo, 4.99 euro l’eBook).
Nato a Bergamo nel 1966, vive a Como e studia con passione gli eserciti del passato. Con Newton Compton ha già pubblicato “Centurio”, nel 2017.
300 anni prima di Cristo, quella stanziata a Roma e dintorni era solo una delle tante decine di popolazioni della penisola. Nel nord e in parte del centro prevalevano genti di origine celtica, che i romani chiamavano Galli, tribù riunite in territori limitati. Alcune sono riconoscibili dai toponimi delle località che hanno abitato, come i Taurini ad ovest, i Veneti ad est, i Liguri e gli Umbri. Toscana e parte del Lazio erano popolate dai misteriosi Etruschi. Per il resto, erano tanti da non poterli citare i popoli di origini diverse stanziati tra la costa adriatica centromeridionale, lo Ionio e il sud tirrenico peninsulare e insulare. Il momento in cui i Romani hanno cominciato a conquistare rapidamente l’egemonia su tutte queste etnie ha una data precisa, secondo il romanzo di Colombo. È la battaglia del Sentino, nel 295 a.C., alla fine della terza guerra sannitica.
Roma affrontò allora non solo gli irriducibili rivali Sanniti e i relativi associati, ma si misurò anche con Etruschi e Galli centrali, riuniti in una rara alleanza, che si può considerare un Lega italica in anticipo sulla storia.
Mentre la comunità cresciuta sui sette colli si prepara a sfidare tanti nemici, Quinto Fabio Massimo Rulliano si sente vecchio per l’ennesimo incarico consolare che il Senato repubblicano intende assegnargli. Per ben quattro volte ha già coperto con onore la carica di console ed ora Roma ha di nuovo bisogno di Rullus, non tanto per la forza fisica, ma perché necessita del pensiero sottile di un uomo nobile, affidabile e capace. Lui solo non si sente adatto all’incarico e pone una condizione: che l’altro console insediato debba essere il giovane Publio Decio Mure, di origini plebee, ma guerriero nato – omonimo del padre e a sua volta del figlio bambino – dotato di forza sul campo più che di acutezza mentale. In coppia potranno controllare i diversi fronti sui quali si attendono la comparsa dei nemici.
Alla minaccia dei Sanniti, nell’agro centromeridionale, si è aggiunta quella delle popolazioni centrali, forze che si sono ammassate in Etruria, un pericolo incombente. Il Senato ha sospeso le pubbliche attività a Roma, posto coorti di veterani a difesa della città, costituito centurie di liberti, equipaggiati con le panoplie sottratte ai nemici nei conflitti precedenti e prelevate dai templi dov’erano esposte.
È stata bandita una leva generale degli uomini di ogni ceto. Vanno a formare le quattro legioni, ognuna suddivisa secondo la posizione che i reparti avrebbero assunto sul campo. In prima fila gli astati, armati solo di lance, poi i principes, protetti da scudi, piastre di bronzo e qualche corazza di cuoio. Dietro, i triarii, fanteria pesante, il vero nerbo, tutti veterani che con i loro grandi scudi davano sicurezza all’intero schieramento. Avanti a tutti, un certo numero di velites aveva il compito di disturbare il nemico lanciando pietre, per poi riparare dietro le file dei compagni. In retroguardia restavano i meno validi, i rorarii e gli ancora più inaffidabili accensi, addirittura disarmati. All’occorrenza, avrebbero preso le armi disperse sul campo. Ogni legione contava quattromila uomini. Se tutto funzionava, i triarii non avevano l’esigenza di entrare in azione, a battaglia già vinta dagli altri reparti.
La cavalleria, composta da alleati e molto meno numerosa, aveva più che altro il compito di fare ricognizioni, colpi di mano, saccheggi e assicurare viveri.
Decio Mure adotta in combattimento modalità anticonvenzionali, convinto che vince chi butta forze fresche per ultimo in battaglia. Il discorso sulla fratellanza militare coi compagni d’arme e sul dovere di fare grande Roma che il giovane console rivolge ai coscritti è una delle pagine più vibranti lette in un romanzo di storia dell’Urbe. Parole semplici, capaci però di infiammare cuori fino ad allora vacillanti, specie quelli dei più inesperti.
Nei campi avversi, i Rasenna, come gli Etruschi chiamano se stessi, non sono entusiasti di combattere a fianco dei Galli Senoni, che considerano poco più evoluti delle bestie. Da parte loro, i Celti emiliani si fanno un vanto di andare in battaglia a caccia di nuovi teschi nei quali brindare. I comandanti etruschi invitati a un banchetto in un accampamento senone temono di aver bevuto nel cranio di un Rasenna ucciso anni prima, ma devono fare buon viso a cattivo gioco.
A nord la lega antiromana è completata dagli Ombrioi, gli Umbri. A sudest, il condottiero dei bellicosi Sanniti è Gellio. Il romanzo segue anche tutti loro, come se fossero eserciti moderni, in uno scenario bellico contemporaneo, a parte i corpi rivestiti di pelli e la natura rozza e crudele, specie nel caso dei Senoni.
Stirpe di eroi
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