Terra matta
- Autore: Vincenzo Rabito
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
Un bracciante siciliano si è chiuso a chiave nella sua stanza e ogni giorno, dal 1968 al 1975, senza dare spiegazioni a nessuno, ingaggiando una lotta contro il proprio semi-analfabetismo, ha digitato su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Ha scritto, una dopo l’altra, 1027 pagine a interlinea zero, senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale, nel tentativo di raccontare tutta la sua "maletratata e molto travagliata e molto desprezata" vita. (Note di copertina)
Di questo lungo racconto innanzitutto affascina l’uomo che, ad un dato momento della vita, avverte il cogente bisogno di impossessarsi del linguaggio scritto per capirsi e capire le connessioni degli eventi generatori della sua identità. Assunto questo impegno con se stesso, l’autore si chiude nella propria “officina” e, come per orgoglioso prodigio, produce il suo e nostro libro che non finisce di sorprenderci.
Vincenzo Rabito aveva in mente che il suo illeggibile dattiloscritto sarebbe stato pubblicato fino a diventare un best-seller? Sicuramente no, certamente non era in cerca d’editore. Piuttosto si deve riconoscere che il suo processo di autocoscienza, ad un dato momento della sua esistenza, fa crollare difese e resistenze e si concretizza nella volontà di ricomporre il mosaico di tanti frammenti autobiografici. Cosa aveva compreso Rabito da illetterato (inalfabeto, si definisce), oltre al valore della scrittura come custodia – nel tempo – della memoria? Egli scrive:
se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente da racontare.
Il senso dell’esserci stava dunque per lui nelle opportunità di effettuare esperienze. Bisogna partire da tale persuasione, direi sapienziale, per mandare avanti la “lettura” d’una personalità che, dell’Italia del Novecento (dalla grande guerra al dopoguerra del secondo conflitto) narra vissuti ed eventi, senza perdere l’occasione di esprimere valutazioni in merito a quella macro-storia che il più delle volte spinge a compromessi per non restare da essa inghiottiti.
Con "Terra matta" ci troviamo così dinanzi a una narrazione pubblica e privata nel medesimo tempo. Pubblica, perché il libro offre la rappresentazione dei problemi del Paese; privata, in quanto l’autobiografia ha più capitoli, ricchi di pathos rievocativo, dove dominanti sono i tratti di un Giobbe siciliano al quale spesso i conti non tornano. Un Giobbe sui generis, che, per sottrarsi a logiche clientelistiche di potere, era costretto a utilizzare l’astuzia volpina e il tatticismo camaleontico. In "Terra matta" il racconto si svolge attraverso l’articolazione d’una dialettalità essenzialmente acustica. Quella di Rabito è la lingua dei padri: terragna, densa di umori e non costruita a tavolino. Egli, in sostanza, ha scritto come parlava e il periodare usato non ha nulla da spartire con la scaltrezza retorica. Parola ben calibrata, la sua, situata tra dialetto e italiano, e con deformazione dell’uno e dell’altro che induce a diverse reazioni: fa gustare l’umorismo spesso al limite del grottesco e nel contempo fa partecipare con pensosa commozione alle tante difficoltà incontrate dall’io narrante nella lotta per la sopravvivenza. In tale ottica, "Terra Matta" si propone come stimolo alla riflessione sulla libertà dell’uomo dai bisogni primari, rivelando, insieme al fascino dell’autenticità narrativa, un Rabito, personaggio quasi da favola, in grado di trasformare la sofferenza in profonda accettazione di un oscuro destino. Senza atteggiamenti di narcisismo o ingenue nostalgie, e senza conoscere Borges, potrei in conclusione dire che egli aveva compreso la quasi coincidenza della vita con la scrittura.
Terra matta
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