Un saraceno di Sicilia. Liriche di Mario Gori
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- Categoria: Poesia
Nato a Niscemi nel 1926 e morto a Catania nel 1970, Mario Gori (pseudonimo di Mario Di Pasquale) fu poeta, narratore e giornalista. Studiò medicina e chirurgia all’università di Pisa, ma non completò gli studi universitari per poter soddisfare i suoi interessi letterari. Mentre andava maturando i suoi moduli espressivi da Ogni Jiornu ca passa (1955) a Un garofano rosso, diede un notevole contributo al “Trinacrismo”, movimento culturale sorto a Catania nell’immediato secondo dopoguerra al fine di rinnovare e valorizzare la poesia dialettale. Fondò e diresse tre riveste: “La Soffitta” (1957/61), “Il banditore del sud” (1961), “Sciara" (1965). Queste e altre notizie si ritrovano nell’antologia curata da Carmelo Conti e pubblicata a Ragusa nel 1983 col titolo Un saraceno di Sicilia. Liriche di Mario Gori, che riprende il primo verso della poesia Ritratto.
Può dirsi una testimonianza d’amore per un poeta dal destino accidentato, e questa antologia certamente è il risultato d’una passione morale e intellettuale orientata a rintracciare il senso profondo del discorso poetico di Mario Gori. Le trentuno poesie, in lingua e dialetto, che vi si trovano sono tra le più significative dell’autore niscemese; illuminanti appaiono le postille critiche riportate in appendice. Zagarrio parla del contaminarsi dei due elementi del dramma e della tenerezza. Santo Calì mette in evidenza il dualismo dialettico che oppone la ragione al sentimento e Carlo Brusati si riferisce a una produzione lirica dove “il pessimismo alla Shelley dell’usignolo o alla Leopardi […] soffonde toni delicati”.
L’ideale di Gori era la mitica infanzia da lui stesso definita “remota meraviglia delle cose”, “dolcissima illusione”, “prima favolosa delizia”. Il senso d’una fascinosa presenza ancestrale è sempre presente nei suoi versi, come pure l’utopia dell’amore e della bellezza, che riesce a evitare l’astrazione lirica. Destruente l’impatto con la cruda realtà: pare in fondo questa la dicotomia che percorre la sua travagliata identità di sognatore cui alla fine rimane una desolante sfiducia.
“La vita mi ha falciato le speranze / e non credo più a nulla”, dicono gli ultimi versi del componimento Lettera al padre, a voler significare il totale spaesamento derivante dalla pena del vivere.
Idealità e realtà, sogno e dramma sembrano i due poli d’una poesia elegiaca e raffinata, sensuosa e asciutta nel momento in cui si allontana dall’onirico teatro delle rievocazioni. Da un lato, lo slancio di voler credere in qualcosa gli fa richiamare le voci di un’infanzia affabulatoria e animistica. Ma l’incanto finisce presto quando Gori avverte l’estinguersi della favola nello scontro con la vita ostile.
C’è pure nella poesia ossimorica di Gori il motivo della fuga e del distacco dallo spazio impervio e periferico del Sud. Va allora ricordata la sua anima di poeta “vagabondo”, e degni di rilievo sono quel bisogno di lasciare il paese che “sparlava”, ma amava, nonché l’esigenza di un vivere altre esperienze per altre vie. Scrive Gori:
“Io sono un saraceno di Sicilia / da secoli scontento, / un antico ramingo che ha pace / solo se va. // Ma il cielo è alto, / è altissimo / e la mano dell’uomo non arriva / a rubare una stella. // Così vado in cerca d’un fiore / da appuntarmi sul cuore”.
Sono gli stilemi “saraceno” e “ramingo” a indicare il radicamento nella tradizione millenaria della sua terra e nel contempo l’alterità per uscire da una condizione di isolamento. Ed è nel rapporto d’amore e odio col paese in cui ha vissuto che la “parola” di Gori diviene ricerca, interrogazione, richiamo. Quanto più la sua esperienza continentale si fa affannosa dinanzi all’effimero e al banale, tanto più il discorso poetico si apre alle sacrali visioni etniche, come appare nella lirica Notturno pisano, in cui il poeta, prendendo le distanze da una società indifferente alle ragioni del cuore, si proietta nella verità della propria origine, del proprio modo di essere. Amaro è il Sud per Gori:
“… ha strade di fango / e siepi d’agavi e rovi / e case basse tinte di fumo / e donne vestite di nero / che lavano avanti le porte / e attendono uomini e muli / con occhi d’ansia / cupi di tramonto”
E più amara è la perdita dei propri legami: “
Come un ramingo sono andato via / con la lacrima grossa del rimpianto / alle strade che amai, alle finestre / dove appesi i bei sogni dei vent’anni / un garofano rosso, una canzone”.
Allora il territorio diviene rappresentazione di vita e di morte per il fascino d’una fitta e intricata rete di magherie e favole, e per le stimmate d’un mondo contadino e il suo silenzio in un succedersi di irrisolti soprusi.
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