Uomini blu
- Autore: Elisa Donzelli
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
Amore e poesia sono stati nella storia della letteratura due vasi comunicanti o almeno, precisiamo meglio, quello che chiamano amore e quella che chiamano poesia. Talvolta la poesia è un mezzo, un tramite per raggiungere l’amore e altre volte accade l’esatto contrario, perché è l’amore che crea poesia (spesso sono più le delusioni sentimentali che le conquiste). È un moto dell’animo, fa parte della natura umana scrivere poesia per manifestare un sentimento amoroso, spesso per fare partecipe l’amata/o dei propri sentimenti.
Allo stesso modo quando una storia finisce o si viene rifiutati è altrettanto naturale scrivere poesia. Amore e poesia si richiamano vicendevolmente. L’amore senza un minimo di poesia è ben poca cosa. La poesia senza un minimo d’amore, almeno inteso in senso lato come amore per l’umanità, per il mondo, per la vita è davvero insussistente. Quanta poesia ci vuole per fare un amore? Quanto amore ci vuole per fare poesia? Nessuno lo sa. Però le due cose sono strettamente connesse, come nel caso di questa plaquette, in cui Elisa Donzelli declina ogni forma d’amore in poesia. Donzelli qui dimostra molto amore per la poesia e molta poesia nell’amore (non è un semplice gioco di parole). Qui l’amore e la poesia sono entrambi due fini a cui tendere e non dei semplici mezzi. E lo fa, sia ben chiaro, con estrema naturalezza dopo un Novecento in cui la poesia non è stata amorosa in gran parte degli autori o in cui l’amore non è diventato poesia.
L’autrice recupera l’amore in poesia, questo sconosciuto e questo grande assente per molti. Per tutto il Novecento, salvo rare eccezioni (come Salinas), la tematica amorosa non è stata rimossa ma emarginata in nome dell’impegno politico e dell’intellettualismo. Nel Novecento spesso c’era intellettualità senza amore e l’amore senza intellettualità (quello delle canzonette). Non è un caso il fatto che i cantautori suppliscono i poeti, che non trattano più l’amore. In questa plaquette invece abbiamo sia intellettualità che amore, nel senso più nobile e meno sentimentalistico del termine. Ci vuole coraggio e bisogna assumersi dei rischi ogni volta che si tratta d’amore in poesia, poiché l’amore è già stato cantato per secoli. Ma queste poesie non sono un canzoniere o lo sono in una versione nuova, dato che i (s)oggetti d’amore sono diversi. Anzi qui non ci si rivolge a un’unica persona amata, ma alla famiglia, e, altro elemento originale, senza che le persone care risultino presenze fantasmatiche, né le classiche figure parentali in stile psicoanalitico con risvolti edipici e antiedipici, annessi e connessi.
D’altronde da cosa trarre materia e ispirazione per fare poesia? Di sicuro non certo da quella che Donzelli chiama la sua "non generazione" (e che altri chiamano generazione X. Elisa è nata nel 1979). Che cosa vuole dire l’autrice con questa espressione? Che dopo il ’77 nessuna generazione ha più momenti di aggregazione e si pensa collettivamente. Ecco perché secondo la poeta molti autori si ripiegano troppo interiormente, diventando egoriferiti e autoreferenziali. Da questo cul de sac non se ne esce e Donzelli, evitando sempre il diarismo, sceglie la famiglia come suo centro di irraggiamento. Lo fa senza stare a ponderare se letterariamente sia più o meno opportuno, giungendo a realizzare sia forme del contenuto che dell’espressione originali. Il merito della poeta è di non ricorrere a certi modelli psicologici ormai stantii di rilettura del passato, né di far prevalere il genitore o il bambino in lei per un’analisi transazionale con cui alcuni credono di fare poesia, pensando di essere dialogici o addirittura sapienziali. Tutta questo "poetume" dell’ovvio ci viene risparmiato! Sia ben inteso: in questa poesia è certamente presente la psicologia, ma non ci sono gli psicologismi; è presente la storia, ma non ci sono storicismi o sociologismi; è presente il sentimento, ma mai il sentimentalismo; è presente l’autobiografismo, ma non ci sono cadute di tono e non è mai confessional. È chiaro che la poeta è ancorata alla tradizione (Luzi e Guidacci ad esempio), ma senza grandi sconvolgimenti o grandi rotture epistemologiche sa anche essere innovativa. L’autrice tratta l’amore a 360 gradi, perché c’è un modo adolescenziale e monotematico di trattare l’amore, quello sentimentale, e c’è un modo più completo e maturo di considerare ogni forma d’amore, come in questo caso. L’autrice trova il giusto mezzo tra coinvolgimento e distacco, giunge a una partecipazione emotiva, che non è mai troppa, né troppo poca, che non eccede mai, né difetta mai. Insomma sa mettere la giusta distanza tra lei, le cose, gli anni passati, gli affetti, senza mai essere troppo presbite e quindi finire nello sdilinquimento, né senza essere troppo miope e quindi senza mai essere fredda e anaffettiva.
L’intero nucleo poematico si muove a mio modesto avviso sul discrimine sottile tra "l’idea che abbiamo di essere una famiglia" e chi considera purtroppo "la morte come il ciclo lineare degli eventi" (si noti l’ossimoro solo a livello letterale e non da un punto di vista del linguaggio figurato "il ciclo lineare"; ancora ci si ricordi che il pensiero occidentale è per molti studiosi lineare e quello orientale è circolare).
È il 1983: "Torino, la strada innevata/ la polizia che entra in casa", ovvero quella che al liceo si chiamava discrezione manzoniana, cioè come accennare in modo sommesso e glissare su un tasto dolente, sia dal punto di vista familiare che collettivo, senza però rimuoverlo. Donzelli riporta alla luce un trauma familiare (che è diventato cronaca e oggi è storia. Suo nonno era Carlo Donat Cattin e suo zio era Marco), un nodo che però si scioglie e viene trasformato in autentica poesia. Un cognome può anche pesare, può essere ingombrante, altisonante. Ma tutto può essere ristrutturato cognitivamente ed emotivamente con l’intellettualità e la poesia, come in questo caso specifico. Questo componimento in particolare è indicativo non solo dell’equilibrio stilistico/formale ma anche di quello psicologico, che permette di rielaborare in modo assennato anche gli choc di un vissuto intenso e di renderlo significativo in ambito letterario. Lo penso da tempo e questa raccolta ne è la riprova che la poesia può anche essere concepita come un test proiettivo di personalità e qui ci troviamo di fronte a una poeta equilibrata, non patologica e quindi a un individuo risolto. Spicca poi il componimento che descrive le ripercussioni su noi italiani del disastro nucleare di Černobyl, perché anche qui la cronaca diventa storia, che si tramuta in poesia.
Donzelli a livello semantico gioca sapientemente con il lettore, trovando spesso l’esattezza della parola, quasi con precisione chirurgica, ma talvolta nei suoi simboli e nelle sue formule lasciando spazio a un margine di indeterminatezza (dovuto sia alla connotazione che all’ambiguità semantica, alla polisemanticità). Il linguaggio non è mai piano, né troppo ricercato, perché per essere veramente letterario, come in questo caso, non ci deve essere medietà, né eccessiva ricercatezza.
Maurizio Cucchi nella prefazione sottolinea la coerenza interna dei testi, mentre Ana Blandiana evidenzia nella postfazione la delicatezza dell’espressività. L’autrice inoltre non ammicca mai alla cultura di massa, né usa mai termini desueti (leggi anche arcaismi), con cui alcuni ritengono di fare poesia. Una cosa è certa: queste poesie si caratterizzano per un impasto molto riuscito di conscio e inconscio (sia individuale che collettivo), di realtà e immaginario (come definire uomini blu i propri genitori). Così come coesistono armoniosamente impressioni, descrizioni mai troppo puntigliose, corrispondenze, epifanie, agnizioni ("Nella montagna sei il primo/ che mi dorme accanto e unico/ per disunione, degli anni/ scioglierai il bianco al silenzio") e qualche sentenza efficace nelle clausole finali (ricorda talvolta l’ultimo Caproni e Nelo Risi, anche se c’è meno assertività ed è tutto più sfumato), senza mai appesantire il dettato o essere troppo concettosa. Le differenze più vistose con "album" (volutamente in minuscolo il titolo) sono che nella sua precedente raccolta erano più presenti Roma e Torino, gli anni ’80 intesi come fenomeni di massa e come costumi, la sua "non generazione" (il concerto di Madonna, il 25 aprile del 1994), il lutto e la sua elaborazione. Però esiste anche la continuità, determinata dal fatto che entrambe le pubblicazioni sono autentica poesia in un mare magnum nostrano di pseudopoesia e contraddistinte da uno stile proprio, che sottende un’originale visione del mondo, cosa che non tutti hanno.
Veniamo a un rovello di molti critici, ovvero la rimozione dell’io lirico in poesia. Leggendo queste liriche mi sono detto che va bene ascoltare le voci e registrarle come nell’eavesdropping sotto forma di pseudoaforismi, lasciando un io residuale che intercetta e trascrive, ma va altrettanto bene recuperare dalla memoria gli altri, questa volta interiorizzati e amati, e giungere a una poesia del noi, coniugando un io non residuale ma neanche ipertrofico, oserei dire un io discreto, con gli altri. È una soluzione validissima anche questa dell’autrice, perché fatta senza intimismo, né senza troppo autobiografismo. E va altrettanto bene per trovare verità umana nella scrittura rifarsi agli archetipi biblici, in questo caso alla Genesi, in un connubio di psicologia del profondo e religiosità, che costituiscono l’impianto dell’intera raccolta. Ogni artista al contrario degli scienziati conosce la realtà in modo soprattutto qualitativo. Il grande Modigliani a chi chiedeva perché dipingeva personaggi con un occhio chiuso e uno aperto rispose che l’occhio aperto serviva per guardare il mondo e quello chiuso serviva per guardarsi dentro. L’autrice qui ha un occhio aperto per rappresentare il mondo e uno chiuso, quest’ultimo per l’introspezione. La realtà umana è costituita da una illimitata molteplicità di eventi e di stati mentali. La realtà umana in fondo è una continua interazione tra io e mondo. È un continuo feedback. La realtà non esisterebbe senza i fenomeni neurochimici del nostro cervello, che ci permettono di rappresentarla. Quella che alcuni chiamano oggettività è solo una conoscenza condivisa. Anche gli artisti più realisti, che vogliono dare una visione più possibile impersonale e distaccata della realtà, non possono mai essere totalmente oggettivi. L’autrice si guarda bene dall’oggettività presunta, che spesso in poesia diventa mera oggettualità. In definitiva l’arte non dipende solo dalla verosimiglianza e dal realismo. Donzelli ne è perfettamente consapevole e si aggrappa anche al suo passato, alla sua famiglia, a sé stessa, al suo amore per le cose, per i suoi cari, per il mondo, perché quella che per alcuni è una scoria di soggettività va comunque salvaguardata, custodita, risparmiata, amata. Riportiamo qui una lirica:
midjourney
sono la neonata distesa e nera
figlia di un maschio del sud,
di una femmina del nordla bambina riccia, la piccola
che preferisce i piccoli, dietro
le cene capisce i grandiil menarca che rompe,
sono la gazzella troppo alta
per la danza classical’adolescente che risponde,
schiva i gruppi e che vogliono
tuttiio sono l’amore contro i muri,
la ragazza che non vuole
i maschi che vogliono,
che non vuole il lavoro
che voglionoe sono la giovane donna
che determina gli eventi,
taglia i legami, ferisce i parenti,
la sposa che si esibisce
la compagna che costruisceio sono l’ostinazione
la sorella mancata, sorella malata,
le vergini che mi siedono accanto
le figlie femmine, secondogenite
il corpo bianco della madre,
l’utero che accoglie il bambino
ed altri animaliil tuo sesso che si dilata,
sono il diaframma che si apre, la corolla che si schiude
io
questo e altre sono stata
mentre tu, mio io, bussimi cambi e non pensi
che per amarti sempre
ho tradito.
N.B: *midjourney (“a metà cammino”) è un software artistico di ultima generazione che si basa su Intelligenza Artificiale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Uomini blu
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