Vincere
- Autore: Mario Bussoni
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2015
“La parola d’ordine è una sola, categorica e imperativa per tutti, essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’oceano Indiano: vincere. E vinceremo!”
La tracotante e mai tanto autolesionistica retorica di Benito Mussolini è l’introduzione perfetta al saggio del prof. Mario Bussoni, giornalista e storico, che, in “Vincere. Le battaglie perdute del Duce dal ‘22 al ‘39” (Mattioli 1885, aprile 2015, pp. 142, euro 14,00), fa le pulci alla condotta guerresca deficitaria dell’Italia fascista, che il duce spacciava invece come patria di una stirpe guerriera.
Insieme allo slogan, è significativa del pathos da canzonetta che caratterizzava il Ventennio una fotografia in bianconero, che introduce il volume. Impegna due pagine del libro di ampio formato e riprende un gruppo di gerarchi, pienotti, tarchiati e paffuti, che in modo tutt’altro che marziale accennano goffamente una corsetta alla bersagliera, al seguito della figura rotonda del Capo. A giudicare dalle divise di orbace, si tratta di uno scatto datato fine Anni Trenta. E dire che a quel punto, dopo tanti rovesci, gli italiani dovevano pure aver capito che più che suonare, venivano suonati.
Quante ne avevano prese, un po’ da tutti! Ma la propaganda del regime sterilizzava la stampa e gli insuccessi nelle guerrette del Fascismo non venivano raccontati. Anzi, sembrava che si fosse stupito il mondo, strappando allori dovunque si fosse andati a sfoggiare l’italica smania di un posto al sole.
Una grande collezione di figuracce, davanti agli indigeni ribelli nelle colonie quanto ai miliziani internazionalisti nella guerra di Spagna, dalla pacificazione della Libia dopo la Marcia su Roma all’occupazione dell’Albania. Botte sui denti, con l’aggravante dell’incapacità nazionale di imparare la lezione e con la sola attenuante della conclusione vittoriosa di tutte le campagne militari, successi finali controproducenti, che nascondevano gli smacchi. Deboli ma presuntuosi, fin quando l’arroganza del regime non ci cacciò nel calderone della seconda guerra mondiale. a quel punto il bluff venne smascherato. E fu la caduta.
Le mirabolanti imprese, analizzate nei dettagli dallo storico parmense, hanno un principio nelle sabbie della quarta sponda, una fine nelle pietraie albanesi e un complice, un compartecipe delle operazioni belliche da operetta care al fascismo: il generale Graziani, lo “Scipionico” repressore delle guerriglia libica. Imbelle nelle battaglie contro gli eserciti inglesi e alleati, riuscì a macchiarsi, da governatore dell’Etiopia, nel 1937, del più grave genocidio religioso in Africa fino all’avvento dell’Isis: il massacro dei copti a Debra Libanos.
Alle campagne africane, seguirono la partecipazione militare semiclandestina alla sanguinosa guerra civile spagnola – militari e legionari fingevano d’essere volontari o anche “mercenari” nell’esercito di Franco – e la buffonata della conquista dell’Albania, alla vigilia della seconda guerra mondiale.
A quel punto, il sogno di grandezza di Mussolini e gli sforzi bellici precedenti avevano intaccato il già ridotto potenziale militare italiano. La consapevolezza dell’impreparazione aveva costretto il Duce a rinunciare ad entrare in azione fin dal settembre 1939. Ma restare a guardare lo deprimeva, gli provocava un dolore inconfessato, taciuto finanche al genero Galeazzo Ciano, ministro degli esteri. Per lui erano tante occasioni perdute, di cui si limitava a lamentarsi al telefono con l’amante Claretta Petacci.
“La Germania vincerà la guerra nel più breve tempo possibile, sia per la sua grande potenza e per l’addestramento degli uomini, sia per l’impiego, a breve scadenza, di armi sbalorditive”.
Fremeva, era sicuro che Hitler avrebbe fatto un boccone dell’Europa ed anche in fretta, mentre lui soffriva inerte.
La scelta di salire sul carro dei vincitori maturò nel marzo 1940. Gli servivano poche migliaia di morti per sedere al tavolo della pace e il dado andava tratto al più presto, pur sapendo – come fa notare Bussoni - che le Forze Armate italiane non erano minimamente in grado di sostenere una qualsiasi guerra e che le Colonie sarebbero state lasciate a soccombere, un destino inevitabile.
Presa la “decisione irrevocabile”, restava da stabilire “l’ora segnata dal destino”, lasciando ancora una volta tutto l’apparato militare e bellico italiano in uno stato di sconvolgente disorganizzazione, di totale mancanza di piani preordinati, di carenza assoluta di uomini e mezzi. Non erano bastate divise, adunate e parate a fare degli italiani un popolo guerriero: le Forze Armate riproducevano l’immagine del Paese, con tutte le contraddizioni e i difetti nascosti dalla propaganda mussoliniana.
L’improvvisazione al potere. Mancò la forza, la fortuna non c’entra.
Vincere. Le battaglie perdute di Mussolini. Dal '22 al '39
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