Adua
- Autore: Igiaba Scego
- Casa editrice: Giunti
- Anno di pubblicazione: 2015
“Ognuno ha il suo cammino da seguire, i baratri dove precipitare.”
Nessuno ci aveva mai raccontato così quella parte di Storia che rispecchia tanto l’attualità, perché mai nessuno è davvero convinto di voler guardare in faccia la verità. Fa male, è scomoda, è brutta, spesso ha dei nomi e dei cognomi, un volto in cui riflettersi e tante colpe da smaltire.
L’occhio lucido e attento di Igiaba Scego ci costringe a questa realtà, ci promette la salvezza attraverso parole scolpite nel coraggio e nella durezza di un mondo che si affanna senza requie. La Scego traduce l’orrore, la speranza e quel profumo di libertà in Adua (Giunti, 2015), il suo ultimo lavoro in libreria dal 2 settembre, un romanzo che accarezza l’anima mentre strattona la sensibilità del lettore, ridestato dal torpore di una quotidianità bugiarda.
Igiaba Scego questa volta sceglie di portare in scena Adua, una donna di origini somale che abita a Roma e confida la sua storia di bambina incompresa e di giovane illusa alla statua dell’elefantino di Bernini, che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. L’elefantino, dalla grandi orecchie accoglienti, diventa custode della vita di Adua, moglie fragile di un matrimonio fantoccio: il giovane Titanic – così la donna chiamerà per tutta la durata del romanzo il ragazzo che ha sposato, un richiedente asilo sbarcato a Lampedusa – si rifugia nel corpo avvolgente di questa donna matura, segnata da una vita che le ha sempre presentato il conto duramente, senza scampo; è bello Titanic, bramoso di libertà e di riscatto, fiducioso in un futuro che non sarà di certo lì, con una moglie che non vuole fare l’amore, fiaccata dalle insidie e dai rancori di un’esistenza compromessa.
Adua è un romanzo a più voci, assomiglia ad una pièce teatrale in cui i racconti di Adua, di suo padre Zoppe e della Storia si intrecciano con ardore alle visioni di cui il testo si fa portavoce. All’interno dei tre momenti storici che Igiaba Scego fa magistralmente volteggiare – il colonialismo italiano, la Somalia degli anni ’70 e la nostra attualità, con la sua tragedia dei migranti che perdono la vita nel nostro Mediterraneo – si stagliano figure dalla forte carica emotiva, con un bagaglio di ricordi che colpisce dritto allo stomaco: pugni di dolore alla comodità della menzogna e della dimenticanza.
Si parte dalle origini per raccontare il presente, si parte da lontano, da quella terra somala così ostile e così splendente, si parte dal sole di Magalo, dal chiasso di Mogadiscio e si parte da Zoppe, “un ambasciatore della lingua, un mediatore”, uno che “lavorava sul presente, sull’attimo che passa”. Zoppe è il padre di Adua, ma prima ancora è stato il giovane traduttore che dall’Africa è volato in Italia, nell’Italia del Duce, in un’Italia feroce, dal pregiudizio facile e dal ghigno rabbioso.
Quell’uomo dalla pelle marroncina e dal completo kaki impeccabile cerca la sua fortuna, una libertà e un’indipendenza economica che gli permettano di sposare la sua amata Asha La Temeraria, che è laggiù, ad aspettarlo, pronta ad amarlo per tutta la vita. Eppure quello che Zoppe si aspettava dalla magica Roma è ben diverso da quello che realmente trova: umiliato, oltraggiato, insultato, deriso e picchiato. No, non era questa la fortuna che aveva tanto desiderato, non era questo il mondo che aveva sognato. Sotto il cielo stellato di una Roma incattivita dal suo presente - che è oggi il nostro passato - Zoppe, figlio del visionario Hagi Safar, riesce a conservare intatto, anch’egli, il suo spirito magico, quello che lo conforta con visioni che toccano anche i confini del mondo possibile. L’ancora di salvezza risiede proprio nel ricco mondo interiore di Zoppe, in quelle visioni che scavalcano, puntualmente, la soglia della crudeltà umana, quella stessa crudeltà che lo vorrebbe dimentico della propria identità e del proprio passato, senza memoria. Perfino l’Urbe, di fronte a tanta grandezza interiore, appare minuscola.
Anche Adua è alla ricerca della sua libertà, una libertà che si veste dei colori delle stoffe africane, delle boscaglie impervie della terra di origine, una libertà che, però, la giovane pagherà a caro prezzo. Umiliata anche lei dalla sfacciataggine di italiani senza dignità, proprio come suo padre Zoppe – un padre difficile da amare, autoritario e a volte ingiusto – Adua sognava da tempo il suo riscatto personale e vedeva brillare le stelle di un glorioso futuro nel mondo sfavillante del cinema. Ma proprio quel mondo l’ha tradita, le ha fatto annusare l’impronta della felicità e le ha sottratto non solo gli anni migliori, ma soprattutto il rispetto per se stessa. Impegnata a girare un porno soft dal titolo Femina somala, Adua mostra al grande pubblico italiano la sua carne scura, i suoi frutti più tenui, una bocca da baciare e gambe lunghe da accarezzare. Si vede costretta ad ingoiare una sporca moralità, spinta dal desiderio di diventare come Marilyn, star del firmamento cinematografico. Purtroppo, quella stella, per Adua, non brillerà mai.
Il romanzo Adua è una storia di doppia libertà, è la guerriglia incessante che tutti gli uomini intraprendono per conquistare il loro sogno, per affrancarsi dal dolore di origine, quello ancestrale: Adua e Zoppe – così diversi, così conflittuali, così irrimediabilmente simili – sono due volti diversi della stessa urgenza. Adua vuole riscattarsi da una vita che le va stretta, da una Somalia che col passare del tempo, quando giungerà nell’agognata Roma, le mancherà sempre di più, e vuole richiamare rivendicare le sue esigenze di donna e di essere umano. Zoppe, allo stesso modo, cerca la via di fuga dalla povertà, quella che non gli permette ancora di sposare Asha La Temeraria, fuggendo, così, con i suoi vent’anni in spalla, alla ricerca di un sogno italiano che non sarà più un sogno, ma diventerà presto un incubo.
Un incubo reso ancora più tetro dallo spettro del fascismo, della guerra in Africa, del colonialismo italiano, che ha messo persino Zoppe contro la sua stessa gente.
È qui che si snoda un punto interessante del romanzo, che tocca impensabili punte di profondità trattando argomenti spinosi, eppure così veri, così puri nella loro durezza: tutto ciò che Igiaba Scego descrive è la realtà, la verità di una civiltà che ha sempre remato contro il diverso, contro altri esseri umani vittime di un razzismo incomprensibile. Aprono la coscienza del lettore, queste pagine, squarciano il velo dell’ipocrisia e presentano agli occhi stupiti del pubblico la sincerità dei sentimenti, tradotti in dialoghi appassionanti, monologhi audaci, descrizioni irriverenti. Igiaba Scego opera in modo preciso e puntuale, come un chirurgo: con grande maestria e studiata consapevolezza, affida alle pagine di Adua una potenza emotiva che ci spinge a guardarci dentro, che ci costringe ad un faccia a faccia con le nostre responsabilità di individui pensanti e operanti.
L’autrice realizza questo quadro di disperazione e autenticità utilizzando uno stile asciutto, essenziale, vero: poetico quando ce n’è bisogno, stridente e rabbioso nei punti giusti.
Ed ecco che si arriva ad un punto cruciale del romanzo, in cui si avverte una tensione che si dipana da simile a simile, un punto che colpisce sul vivo:
“Mi piaceva, da buona schiavista, vederlo prostrarsi ai miei piedi e chiedermi in cambio solo poche briciole d’amore. Da padrone magnanima gli gettavo quel po’ che gli bastava per adorarmi”.
Sono parole di Adua, queste, espressioni che la protagonista utilizza in riferimento a Titanic, giovane marito scampato ad un destino infausto grazie a lei. Ebbene, così come opprime e indigna quel razzismo inutile degli italiani nei confronti dei cittadini africani, tanto più si resta basiti nei riguardi di quella diffidenza e di quella presa di distanza da parte della medesima comunità di appartenenza. È Adua, in questo caso, a sentirsi padrona di un uomo che ha raccolto dalla strada, a cui ha dato da mangiare, da bere e un tetto sopra la testa. Si tratta di una situazione che richiama alla memoria – sebbene differisca per modalità ed epoca – un episodio narrato nel libro Ebano di Ryszard Kapuscinski.
Nel testo del reporter polacco si descrivono con chiarezza gli atteggiamenti dei cosiddetti Americo-Liberians, ossia di coloro che, ex schiavi nelle piantagioni degli stati meridionali dell’America e privi di ogni diritto, una volta rientrati liberi nella loro terra d’origine hanno avvertito la necessità di ricreare una società analoga a quella americana,
“con la differenza che stavolta a farla da padroni saranno loro – gli schiavi di ieri – mentre gli abitanti trovati sul posto e conquistati saranno i loro schiavi”
sangue del loro sangue, come specifica Kapuscinski.
La chiave del romanzo è già tutta lì, nel titolo: Adua è la figlia di Zoppe, è la battaglia che ha fatto la differenza, è il destino di un padre e di una figlia fatti della stessa sostanza, amalgamata in modi differenti.
Parole scelte con cura, adagiate sul foglio a testimonianza di una vita che a volte incespica su stessa, senza rimedio. E che pure riesce a rialzarsi, riesce a viversi lontana dai bagliori dell’illusione, lontana dal chiasso della cattiveria umana. Lontano da quel turbante blu che ha contenuto ricordi condivisi, fatti di dolore e accorate grida di aiuto.
Per aprire gli occhi sulla Vita, sul Presente e su una possibilità di Futuro migliore, e per non nascondervi dietro il velo di una finta verità, assaporate il gusto di una scrittura appassionata. Come quella di Igiaba Scego.
Adua
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