Disorganici. Maestri involontari del Novecento
- Autore: Filippo La Porta
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Esistono molti modi per amare i libri. Leggendoli, per cominciare, ma anche sfogliandoli, saggiandone peso e volume, annusandone l’odore quando sono ancora caldi di torchio, e noverando, perché no, le macchie, le abrasioni e le muffe del Tempo come in un palinsesto da riscrivere all’infinito.
Spesso dimentichiamo che un libro è innanzitutto una "cosa", fatta per essere percepita sentita toccata, con l’allerta dei sensi prima ancora che con l’intelligenza. Come questo libretto, "Disorganici. Maestri involontari del Novecento" di Filippo La Porta e dico "libretto" perché è fatto così: sobrio e gentile nel suo minuto formato tipografico, che pare un breviario da tenere nel palmo di una mano per cercarvi il lampo di una preghiera che ispiri e consoli. Poco più grande di una bussola da tenere stretta nel pugno per rintracciare il filo sfuggente di un nord su cui orientare il passo, mentre attraversiamo sperduti un territorio ignoto.
Un libro è una cosa da stringere, quando tutto il resto precipita o si slega e diventa oscuro e indistinto e a nulla o a ben poco possono servire le competenze specializzate, gli esercizi critici di scuola sul "Dopo la Poesia", i plausi e le botte, le sperimentazioni d’avanguardia e gli affettati balbettii di Muse inquietanti resuscitate al canto dai rituali vudu della più algida erudizione. Non bastano, queste protesi, a compensare quel contatto smarrito, sensoriale ed emotivo, quell’attrito immediato con la Realtà, che ristabilisca "un qualsiasi nesso tra pensiero ed esperienza", ecco, nella riflessione che La Porta sviluppa nel suo libretto, interpellando, dialogando, mettendosi in ascolto di voci e nomi di poeti e scrittori "assai poco disciplinati, intellettuali più dilettanteschi che specialistici" c’è una domanda che emerge vitale, necessaria: di senso; di maestri "involontari "a cui rivolgersi devotamente "faccia a faccia" per chiedere non la "formula che mondi possa aprirti", ma la traccia esile e illuminante di uno stile. "Perché?" si (ci) domanda l’autore.
Probabilmente perché il loro stile ha a che fare, sia pure indirettamente, con la poesia, con una soggettività esibita, con un pensiero emotivo.
Un libro è una cosa, ma se si colma di nomi, di ombre e di voci che "si potrebbero associare all’esperienza reale, al suo schiudersi inaspettato, anch’essa simile a una occulta rinascente sorpresa" (folgoranti davvero queste riflessioni dedicate a Cesare Garboli, "involontario critico della cultura"), diventa simbolo vivente e sembianza di cosa reale. Come se quei nomi, prossimi o lontani, convenissero insieme con noi dalle periferie più remote e appartate verso il centro, di una domanda essenziale, soltanto per ritrovarvi la radice di una realtà, di un’appartenenza. A questo servono i maestri? E i libri?
Disorganici. Maestri involontari del Novecento
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