Roma è una bugia
- Autore: Filippo La Porta
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Laterza
- Anno di pubblicazione: 2014
Ho letto il titolo di alcuni dei capitoli che Filippo La Porta ha messo al suo libro “Roma è una bugia” (Laterza, 2014) e da romana non ho potuto che comprarlo e leggerlo subito. Mi sono piaciute molto alcune pagine, tutte le citazioni, la scansione del testo, le mappe personali dell’autore, anche se non mi sono riconosciuta in alcune delle parti che riguardano anche la mia vita.
Molto ben ricostruito il carattere dei romani, la psicologia di massa di chi ha già visto molto, quasi tutto, e il massimo di stupore si concentra nel trisillabo “Anvedi!”, difficile da spiegare ai non indigeni.
Roma non è razzista:
"L’identità romana, come quella americana, era una costruzione artificiale, un’identità che si forma per consenso e non è legata al sangue, alle radici. Di qui anche la assimilazione di altre culture (…) Roma assomiglia a un lungo crepuscolo artico che si tinge di infiammati colori barocchi”
E via a citare infiniti nomi di scrittori che hanno raccontato la città anche se venivano da altrove: ecco Cristina Campo, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Tommaso Landolfi, Vitaliano Brancati e anche Gabriel Garcìa Màrquez, che soggiornò a Roma nel 1955.
Di questi, il più romano dei provinciali, Federico Fellini, che tra le varie espressioni locali predilige “Ma chi sei? Non sei nessuno”, unita all’espressione più vernacolare, nella quale è possibile davvero riconoscersi tutti: "sti cazzi", che, afferma La Porta, denota indifferenza coniugata con stoicismo.
Nei capitoli centrali del libro l’autore parla dei quartieri nei quali ha abitato, cominciando dai Parioli, il luogo dell’infanzia e dell’adolescenza. La scuola media di via Boccioni, traversa di viale Parioli, oggi nota soprattutto per le baby prostitute, è stata anche la mia scuola. I Parioli sono “sempre stati assai più un luogo dell’immaginario piuttosto che un luogo reale e tangibile” e le critiche che vengono mosse all’intero quartiere oggi sono del tutto condivisibili; ma negli anni Sessanta, quando si andava al liceo, la vita di quartiere intorno al liceo Mameli è stata qualitativamente aggregante, mentre La Porta non cita la parrocchia dei Gesuiti in piazza Ungheria, dove si è svolta una ricca vita culturale impensabile ai giorni nostri. Molto del Sessantotto con la sua carica di rinnovamento del costume e dei rapporti con le istituzioni, scuola e famiglia soprattutto, ha avuto origine anche in quel quartiere.
Molto ricca di spunti la parte dedicata all’Aventino, con le sue stazioni e i suoi cimiteri, come se la città detta eterna vivesse molto anche del rapporto con i suoi defunti: a Roma, spiega l’autore, ci sono un numero grande di cimiteri, oltre al Verano, Prima Porta, Ostia Antica, Laurentino, il cimitero acattolico, i cimiteri militari. Sembra così lasciare intendere che una certa dimestichezza con la morte rende i romani più saggi di quanto non li avesse giudicati Leopardi nel suo infelice soggiorno in città:
”tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore dose di buon senso che il più savio e più grave Romano.”
Nelle pagine di Filippo La Porta sfilano le cosiddette borgate, San Basilio, Tor Pignattara, dove il giovane militante del gruppo del Manifesto andava a fare lavoro politico, come si chiamava allora il volontariato dei giovani borghesi che dai Parioli si spostavano in Fiat 500 per sensibilizzare un sottoproletariato senza coscienza politica che in realtà aspirava solo ad impossessarsi dei consumi dai quali era fatalmente escluso, come deplorava Pasolini in quegli stessi anni.
Il libro si conclude con un’interessante disamina dei danni di un piano regolatore sbagliato, di quartieri costruiti da architetti incapaci di comprendere i reali desideri dei cittadini, mentre la città, afferma giustamente La Porta, non ha bisogno di grandi opere e di grandi architetti che lascino il loro personale “segno”, ma piuttosto di ordinaria manutenzione, perché la periferia romana è sterminata, “racchiude una miriade di microcosmi e costituisce la vera ossatura della città, ripiena di narrazioni, reali o potenziali". Storie che ci ha raccontato in passato Pasolini, che ci raccontano ora Walter Siti o la fiction di Romanzo criminale.
Nel libro denso di citazioni e di protagonisti della vita culturale c’è molto di più: ci sono Moravia e Gadda, il Ghetto e il Raccordo Anulare, Mastroianni e Jepp Gambardella, Morante e Anna Maria Ortese, Jimi Hendrix, protagonista di un concerto al teatro Brancaccio nel 1968 davvero sovversivo, e i grandi artisti della seconda scuola romana, Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Mimmo Rotella, i caffè di Piazza del Popolo e quelli di Piazza Navona, troppo per essere racchiuso tutto in una narrazione, che lascia la voglia a me, lettrice romana, di ripensare con maggiore obiettività la città in cui vivo, quella che afferma La Porta “specchiandosi nella solennità della Storia, appare l’anticamera del “giudizio Universale”, con buona pace di Fellini e Sorrentino.
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