Il dono
- Autore: Giorgio Micheli
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2018
Il dono di Giorgio Micheli (edizioni NullaDie, p. 118, 2018) è un romanzo di redenzione, nel quale un’anima passa dall’oscurità alla luce, dalla depravazione fino alle soglie della santità. È un cammino arduo e difficile, ma lo scrittore può compierlo grazie alle sue conoscenze psicoanalitiche, a cui si aggiunge l’avvicinamento alla spiritualità di altre culture, in particolare quella sciamanica dei Nativi Australiani.
È un romanzo d’amore, introspettivo ma dinamico, scritto con stile sintetico e incisivo e presenta punte emotive molto intense, incandescenti. L’istinto diventa consapevole di sé.
La vicenda inizia con una pioggia che simbolicamente dovrebbe lavare una situazione di degrado, senza che ciò accada. Abbiamo due giovani ragazze, Cloe e Chandra, abbrutite, sebbene bellissime, dall’alcol e dall’asservimento a un uomo padrone. Quest’ultimo gioca con le sue arti seduttive per aggiogare e abusare. Le ragazze lo temono eppure lo desiderano. Alle loro spalle stanno famiglie già sfasciate o piccolo borghesi soffocate dall’ipocrisia.
La cronaca quotidiana informa che sevizie, violenze, femminicidi e sfruttamento macchiano indelebilmente i nostri giorni. Micheli è dunque fedele testimone di un vissuto drammatico e logoro come un vestito a brandelli. Lo scenario «da sottosuolo» che richiama Dostoevskji occupa tutta la prima parte del libro.
Quale rimedio propone lo scrittore, a quali forze fa appello per risvegliare le coscienze?
Tommaso, il personaggio chiave depravato, si trasforma grazie a un «dono».
Le conversioni per tradizione avvengono in modo subitaneo e inatteso. Qui, Tommaso non è in grado di compiere da sé il rivolgimento spirituale che lo salverebbe. Tommaso non può ripercorrere il passato, può unicamente ripetere il male subito con l’incoscienza che procura la rimozione, unico sollievo al dramma. Nel personaggio i ruoli di vittima e carnefice si fondono in un dolore sordo ed emerge stagliata a tinte forti l’immagine di una belva ferita che a sua volta ferisce con viltà, azzanna il debole, ritagliando per sé una forza illusoria.
Poiché Tommaso ha toccato il fondo dell’errore e non può rialzarsi, ecco venire in suo soccorso una presenza sovrasensibile.
Micheli non rispolvera un filantropo o un missionario, ma uno sciamano proveniente dal “tempo del sogno”, che agisce e parla, ci interpella da un antichissimo passato: la cultura paleolitica risalente a decine di migliaia d’anni fa. È uno spirito ancestrale della tradizione aborigena australiana.
Sono stati, questi, popoli decimati, distrutti dall’uomo bianco, nella feroce colonizzazione britannica. Eppure è un bianco, un nemico storico, che lo sciamano abitatore dei sogni privilegia, e si pone come sua guida. Rinnovato Virgilio, il Maestro trae fuori dall’inferno l’uomo caduto, lo protegge e guarisce. Drammatico capovolgimento della storia! Tommaso non ha chiesto nulla. Ma neppure Dante chiede la salvezza, gli viene data.
Non possiamo qui dimenticare la grande lezione di Lévi Strauss, l’antropologo e filosofo che ha rivoluzionato il nostro pensiero, togliendo all’occidente una supposta superiorità logica ed etica. Il suo «pensiero selvaggio» ristabilisce la verità di concetti universali presenti in ogni cultura e in ogni tempo. Esiste un sostrato animico-spirituale che ci accomuna. Noi moderni, avendolo perduto, alienati nelle cose, abbiamo necessità di un ritorno sulla buona strada, attraverso l’irruzione dell’intuizione.
Due parole esplicative sul “tempo del sogno”. Per la tradizione iniziativa australiana, quel tempo mitico è contemporaneamente l’inizio del mondo, conosciuto e rivissuto in trance, ma pure la capacità attuale di «sognare» (leggi: appropriarsi di conoscenze) nel presente per ricevere rivelazioni. Accanto a questa nostra realtà sperimentabile con i cinque sensi, per il popolo arcaico (e per noi?) ne esiste un’altra, perenne e duratura, oltre le leggi fisiche spazio-temporali, ritenute invalicabili. L’anima si muove ben più velocemente della velocità della luce, è nel non tempo, possiede facoltà differenti e superiori a quelle della materia, capacità vibrazionali e ritmi risvegliati da canti, danze rituali, immagini sovrasensibili provenienti dall’intero cosmo. L’unità e la solidarietà di tutto l’universo unito dall’amore costituiscono l’assioma di fondo.
Tutto ciò può essere donato. Al più degno o anche all’indegno? Ho posto la domanda all’autore. La sua risposta è stata l’affermazione munifica che tutti abbiamo diritto a un riscatto. Una risposta molto vicina all’autentico spirito evangelico, la «buona novella» portata dal Salvatore agli ultimi, ai poveri, agli oppressi, straccioni e "peccatori", come pure a centurioni rappresentanti del potere costituito.
L’incontro con lo sciamano porta a un’iniziazione onirica tradotta in azioni volitive e consapevoli, esattamente contrarie a quelle compiute fino ad allora dal reprobo pentito. Il «dono» di guarire corpo e anima passerà di mano in mano, nella nuova generazione, poiché non può andare perduto.
Questo piccolo romanzo giocato tra realismo estremo e magismo, tra realtà e immaginazione creatrice, sia riflessione e monito, uno spiraglio verso sentieri di libertà, etica e fraterna condivisione anche per noi, troppo spesso immersi in una quotidianità senza luce, priva di grandi ideali. Sia utopia e buona volontà congiunte, in un mix di sofferenza e sogno rigenerante, attraverso il sostegno del nostro essere sciamanico, l’Io superiore eterno, portato alla coscienza con un pensiero di Bene. Un Bene scoperto e germinato, paradossalmente, nel fango, nel “male”, virgolettato per sottolinearne la relatività. Come ne ha scritto Saba nel suo Canzoniere, poesia geniale di «difficile facilità», per riprendere la definizione di poesia petrarchesca, per noi triestini scolpita nel cuore:
«Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via».
Il dono
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