Le quattro stagioni a Trieste
- Autore: Giorgio Micheli
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2021
Le quattro stagioni a Trieste (Ensemble edizioni, pp. 169, 2021), fresco di stampa, è il quinto romanzo di Giorgio Micheli, scrittore, poeta, musicista ed educatore nel campo della disabilità psichica.
Il titolo rimanda alla notissima composizione in quattro concerti di Vivaldi; abbraccia il tempo scandito dalla musica perché la vita è suono, Parola sacra, secondo il primo Fiat biblico e anche secondo il suono cosmico Om. Newton percepiva la musica delle sfere, Dante le musiche celesti paradisiache, i fisici con i loro strumenti sofisticati oggi captano il suono delle onde gravitazionali. Poesia, arte e scienza concordano su questo assunto ontologico vibrazionale, generatore di vita con la sua bellezza e i suoi drammi.
Tutto ciò è implicito nel libro ed è collocato a Trieste, città musicalissima come ha saputo magistralmente raccontare James Joyce in uno dei suoi articoli scoppiettanti scritti durante il suo soggiorno triestino per il quotidiano locale "Il Piccolo della sera", ambientato nel loggione del "Teatro Verdi". Anche Giorgio Micheli ha suonato per molti anni nell’orchestra di fiati comunale triestina e trasferisce nel libro la sua passione musicale, che è anche una visione del mondo, il suo modo di approcciarsi alla vita.
Trieste è stata culla della psicanalisi in Italia, con il pioniere dr. Edoardo Weiss, allievo di Freud a Vienna e psicanalista di Saba. Le radici culturali mitteleuropee della città affondano nei meandri dell’inconscio. Micheli ci introduce in questi territori difficili con sensibilità e competenza; anch’egli ha incontrato un maestro psicanalista nel suo passato formativo e soprattutto ha il contatto costante quotidiano con il disagio psichico, nel lavoro che svolge tuttora.
Le vicende esperienziali convogliano in queste pagine dolenti ma cariche di poesia, spesso intensamente liriche. L’elemento immaginativo e fantastico gioca certamente la sua parte, ma poggia solidamente sulla realtà, esteriore e interiore. Ne risultano racconti e personaggi credibili, dall’animo tormentato, lacerato, a volte contorto, in cui l’aspetto maniacale diventa paradigmatico di un disagio esistenziale universale, che riguarda tutti: il disagio del mancato o difficile adattamento sociale, l’incomunicabilità che si esprime nella nevrosi. È sempre l’Io a doversi adattare al collettivo; un Io spesso piegato dal Super Io, carico di pregiudizi e convenzioni deleterie, dure a morire.
Tale è soprattutto Piero, il ragazzo affetto da comportamento ossessivo compulsivo, impossibilitato a rapportarsi con chiunque. Indossa una mascherina ante litteram pre covid-19, per difendersi dai virus, copia di M. Jackson. Eppure riuscirà ad avvicinare una cantante, a ricevere da lei il primo bacio, sommerso dall’emozione, insieme... al desiderio di lavarsi i denti. Piero si sottopone settimanalmente a sedute psicoanalitiche, che sono un salvagente. Ricorda la morte dell’amatissimo cane nella sua infanzia solitaria. L’animale è un alter ego perduto che ritorna in sogni e incubi. L’anamnesi, come pure il dolore, sono in funzione della conoscenza; le parole benefiche del medico lo raggiungono e ci raggiungono:
“Questa vita è importante, non sprecarla, sei su questo lettino per comprendere e affrontare il dolore, elaborarlo, farlo tuo, trasformarlo in una esperienza utile per il cambiamento.”
Straziante la storia dei coniugi che diventano genitori della bambina down. Il padre, Bruno, reggerà la prova durissima; non la madre, Giada, sopraffatta dalla delusione, dal senso di colpa e soprattutto dal sentimento della vergogna. La donna è dominata da credenze quali:
"Sindrome di Down, si dice così ora; per gli altri è una mongoloide, una ritardata.”
Giada rifiuta il frutto del suo grembo, si sente abbandonata da Dio, cerca rifugio in un amante ma il suo cuore troppo provato cederà. Bruno, invece, confida nell’amore e nella Provvidenza; troverà la luce in un’altra donna e nel sorriso azzurrissimo della bambina.
Lo scrittore pone sul tappeto il dilemma del dolore innocente, il problema del male come millenni fa è stato posto nello straordinario libro di Giobbe. Non resta che l’accettazione, con immensa forza di volontà coraggiosa, tirata fuori dell’intimo, dove il male è comunque vinto dall’impulso alla vita.
Ma non solo. Nell’episodio con protagonista Sofia, resa disabile in guerra, in Afghanistan in missione dove la ragazza ha perso una gamba, abbiamo il recupero dell’autostima attraverso l’amore ricevuto senza riserve da Ivan. I due ragazzi partecipano al lettore un amore puro incontaminato, oltre le apparenze, basato sull’attrazione dei corpi e delle anime. Commuove la scena in cui Sofia deve spogliarsi per la prima volta, mostrare il suo corpo a lui, bello e prestante, che non sa cosa sia essere mutilati. Sofia avrà anche il coraggio di sollevare i calzoni e rivelare la disabilità in pubblico in una pizzeria. Qui Micheli mette alla prova la sua capacità fantastica, rende possibile l’avvicinamento e il confronto tra normodotati e disabili, con grande potenza emotiva, visiva, e maestria.
L’artista vuole comunicare che, al di là e al di sopra dei dolori umani, resta immutata la bellezza e l’armonia della natura:
“Si baciarono ancora, la notte stellata osservava il dolce amoreggiare. La calma della natura avrebbe riappacificato anche le coppie più litigiose. L’universo elargiva con il suo lento mutare pace e benessere, sempre, ogni giorno.”
Con felice ideazione, lo scrittore aggiunge al suo testo i quattro sonetti che la tradizione attribuisce allo stesso Vivaldi, legati alle stagioni. Fanno da cornice e commento alla musica e agli eventi. Straordinario il sonetto dedicato all’estate, nel quale non prevale la gloria del sole ma un temporale estivo in cui, momentaneamente, vince la morte in una scena di caccia rabbrividente, intrisa di pietà:
“De’ Schioppi e cani, ferita minaccia / Languida di fuggire, mà oppressa muore.”
Anche nella narrazione la signora nerovestita porta via Giada, la madre della piccola Egle down.
Il canto funebre si appaia alla musica sublime. Mai, vuol dirci Micheli, possiamo sciogliere il legame indissolubile morte-vita, nel quale la perdita, il trapasso verso il nuovo sono necessari per la rinascita.
Jacopo Finzi, ebreo, violista, è il disabile colpito da ictus. Vede dolorosamente stroncata la sua carriera. Lo zio di lui, Samuele, sarto, disabile con una gamba più corta dell’altra, durante la Seconda guerra mondiale aveva subito il martirio della Shoah; la storia narrata prima nella Risiera di Trieste, l’unico crematorio nazista in Italia, quindi nel campo di sterminio di Birkenau in Polonia, è raccapricciante e desta brividi. Anche qui, l’autore fa risuonare l’invocazione straziata: “Dio, dove sei”. La domanda ci riporta alla “Teologia dopo Auschwitz” elaborata nel mondo ebraico, per darsi una ragione di fronte la male assoluto, senza perdere la fede. Samuele crede in Dio fino in fondo, la sua anima alta e grande, mahatma, prega fino alla fine.
La teoria sostiene che Dio, nella sua perfezione, abbia in sé anche l’impotenza. Il Creatore soffre insieme all’uomo sofferente, la sofferenza umana assurge a valore cosmico di redenzione.
Ricordo il bellissimo film “Train de Vie” (1999) del regista Radu Mihăileanu, nel quale un personaggio pone l’identica domanda al rabbino: “Dov’è Dio?” Il rabbino, in modo cabalistico, ossia “da bocca a orecchio”, ossia da cuore a cuore, risponde con un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”
Samuele trapassato diviene un fiocco di neve, turbina in cerca di pace. Ecco la poesia che salva! Troverà pace, in un finale impensato, che lasciamo scoprire ai lettori.
L’autore, in un locale, pochi giorni prima di Natale, fa incontrare tutti i protagonisti del libro, divenuto un affresco corale, un coacervo di destini. È un concerto simbolico denso d’amore, sullo sfondo di una Trieste quasi fantasmatica, pure concreta nelle sue strade, nel borgo teresiano, in quello giuseppino, nell’ex ghetto, nelle sue rive, nell’abbraccio del mare da una parte e dall’altra dalla presenza vigile delle pietre del Carso. Bianco e azzurro sono i colori del cielo in cui riponiamo le nostre speranze di bene.
Lo scrittore è anch’egli affetto da disabilità, soffre di una malattia incurabile. Scrive in prefazione, auto svelandosi:
“malattia genetica dal nome complesso: distrofia muscolare facio scapolo omerale. L’invalidità, ormai, fa parte della mia vita e mi coinvolge a livello personale e professionale. Accettare la malattia è stato difficile, di più ancora il suo progressivo aggravarsi nel tempo.”
Così affini, queste dichiarazioni, al sonetto vivaldiano dell’inverno:
“Correr battendo i piedi ogni momento; / E pel Soverchio gel batter i denti;”
Vince l’insopprimibile corsa verso il futuro, vince la salute. Il figlio di Giorgio Micheli è esente dalla malattia. Anche questo dato biografico rientra, può rientrare nella trama del libro a lieto fine, come elemento aggiuntivo. Ed è, forse, il personaggio più bello, in quanto VERO. Vero come i sei personaggi pirandelliani in cerca d’autore, più veri degli attori che li interpretano. Sembra di assistere a una rappresentazione teatrale del Leaving Theatre, dove gli spettatori entrano nel palcoscenico e, con il loro intervento, diventano protagonisti.
Chapeau allo scrittore e, come lui scrive, "pace al mondo".
Le quattro stagioni a Trieste
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