L’alba di un mondo nuovo
- Autore: Alberto Asor Rosa
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
In occasione del 70esimo anniversario della Liberazione di Roma, riproponiamo "L’alba di un mondo nuovo" di Alberto Asor Rosa.
Settant’anni fa, il 4 giugno del 1944 dopo mesi di duri combattimenti sul fronte di Cassino e sul litorale di Anzio e Nettuno, la V Armata alleata comandata dal Generale Mark Wayne Clark entrava a Roma attraversando Porta Maggiore e San Giovanni. La II Guerra Mondiale sarebbe terminata solamente più di un anno dopo ma l’Urbe diventava così la prima città europea a essere liberata.
“Una mattina il mio Chirone, mio padre, mi portò sull’Appia Nuova, a poca distanza da casa. L’esercito tedesco si ritirava. Sono grato a mio padre di molte cose, ma di questa in modo particolare, perché un grande esercito che si ritira è un grande spettacolo da non perdere almeno una volta nella vita.”
Il vento della Storia stava per fare il suo giro e l’undicenne Alberto stava assistendo a un avvenimento epocale, l’esercito di Hitler si ritirava dalla Città Eterna. Intere batterie trainate da camion e da cingolati, plotoni e plotoni a piedi che camminavano a lato dei camion e dei cannoni. A parte il rumore dei mezzi e delle macchine e lo scalpiccio dei piedi “un silenzio profondo gravava su tutta la scena”. Il bambino Alberto aveva spostato lo sguardo dallo spettacolo agli spettatori: sui due lati della strada, a fianco della colonna in marcia, due o tre file di romani, “generalmente adulti maschi” assistevano immobili, i volti grigi, magri, composti e impassibili. Unica eccezione gli occhi, maliziosi e brillanti “come se la letizia prorompesse irrefrenabile da quelle cavità”.
L’esercito tedesco si ritirava in maniera composta ma questa volta gli sguardi dei soldati nazisti non erano più spavaldi ma rannuvolati e perplessi. Il giorno dopo era caduto su Roma un “prodigioso silenzio”. Le strade erano rimaste vuote fino a quando verso l’ora di pranzo si erano visti risalire la via Etruria due militari tedeschi che procedevano appaiati e a passo di marcia. Ognuno portava “a spall’arm” invece della consueta mitraglietta, una bottiglia di spumante italiano. L’apparizione aveva destato stupore tra gli abitanti della via. Mezz’ora dopo ecco apparire un altro militare tedesco, ma questo era sporco, lacero e barbuto, lo si era visto arrancare zoppicando desideroso di raggiungere i suoi compagni in fuga.
“È stato l’ultimo tedesco che io abbia visto in divisa.”
La Capitale del Regno d’Italia aspettava “ci sembrava di essere prigionieri di un’attesa senza fine”, ma finora oltre al veloce passaggio della retroguardia tedesca e di un plotone di 50/60 uomini di nazionalità italiana, ognuno con indosso i segni di un’antica identità, non si era visto altro. Solo silenzio, l’aria come sospesa. Si attendeva qualcosa, quel miracolo vagheggiato, sognato, atteso, quella parola magica: Liberazione. Poi, all’improvviso, in fondo a via Etruria, si notò un formicolio di gente seguito da grida. La folla avanzava ingrossandosi e nel mezzo “c’era uno strano trabiccolo, praticamente un telaio metallico poggiato direttamente sulle quattro ruote di gomma”.
Su quella jeep che i romani vedevano per la prima volta sedevano quattro militari scamiciati, con in testa dei grandi elmetti, “come delle pentole rovesciate”.
“Chi so’ questi?”
Dopo un attimo di silenzio dalla strada un tumulto di voci giovanili aveva gridato:
“So’ americani” So’ americani”
Repentino si era levato un clamore da ogni finestra: urla di gioia e di commozione, invocazioni al Padreterno, a Gesù Cristo e alla Madonna.
“Mio padre e mia madre, senza dire una parola, mi abbracciarono forte le spalle: se non l’avessero fatto, sarei volato fuori dalla finestra per l’entusiasmo.”
Il capitolo Liberazione rappresenta uno dei momenti più significativi de "L’alba di un mondo nuovo", primo libro di narrativa di Asor Rosa dedicato, prendendo in prestito una frase di Virginia Woolf “A quelli che sono stati e a quelli che saranno”.
Il critico letterario, scrittore, politico e docente universitario riannodando le fila della memoria ritorna al passato. Scorrono veloci ma incisive le nodali esperienze di un ragazzino nato durante il fascismo, cresciuto durante l’Impero e testimone dei drammi dell’Italia in guerra come l’atroce scoperta delle Fosse Ardeatine.
Con un tratto coinvolgente e cinematografico l’autore rievoca un giorno memorabile: i carri armati che risalivano lungo la via Etruria, alcuni civili italiani, festanti e scamiciati arrampicati sui carri per festeggiare l’arrivo dei liberatori, la lunga colonna di mezzi militari che faceva degli USA agli occhi di un ragazzino l’immagine di una “potenza smisurata”.
“... per la prima volta, in divisa americana, scopersi di persona l’esistenza dei negri, che fino a quel momento avevano soltanto popolato le pagine dei miei libri di geografia e di storia o le avventure multietniche di Salgari ...”
I romani avevano compreso che prendersela con gli americani “era stata proprio una gran coglionata”. I “liberatori” così chiamati dal popolo romano lanciavano cibarie, caramelle, cioccolata, qualche sigaretta (“Paisà, ciavemo fame! Paisà, buttatece da magnà!”) e una cosa finora ignota: la gomma americana mentre sulle jeep cominciavano a comparire ragazze dipinte, le cosiddette “signorine”, con abiti leggeri e vistosi che si facevano abbracciare dai soldati al loro fianco. Ma il simbolo di quell’alba di un mondo nuovo era la forma di pane, uno sfilatino che aveva una incredibile singolarità: era bianco e soffice distribuito dal Signor Muratori, di professione ferroviere, la mattina del 5 giugno ai presenti, tra i quali Alberto e suo padre.
“Così in quel modo, celebrammo molto semplicemente, ma con grande compunzione, la nostra comunione della liberazione...”
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