L’inferno di pietra
- Autore: Paolo Pozzato
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2009
Il tritacarne umano sull’Isonzo: anche nelle trincee contrapposte a quelle italiane la guerra sulle pietraie carsiche provocava orrore. La casa editrice bassanese Itinera Progetti, nelle sue eccellenti collane che ospitano contributi di saggistica storica sul primo conflitto mondiale, ha pubblicato nell’ottobre 2009 un raro contributo sulla Grande Guerra vista dall’altra parte del fronte. “L’inferno di pietra. Austriaci ed ungheresi sul Carso” (pp. 222, euro 22,00), a cura di tre ricercatori, lo storico italiano Paolo Pozzato, il naturalista e geografo ungherese Tibor Balla e l’esperta in beni culturali Patrizia Dal Zotto che ha insegnato per tre anni la nostra lingua nell’Università di Budapest.
Il libro è corredato da un ingente e nitidissimo materiale fotografico, proveniente dall’archivio privato Dal Molin e dai Musei Provinciali di Gorizia: otto cartine e centotrentadue immagini, raccolte fuori testo al centro del volume.
Non sono poche le ragioni d’interesse di questo lavoro, a cominciare dalla novità di aggiungere alle classiche fonti austriache e tedesche quelle ungheresi, finora trascurate, che alimentano la seconda parte del testo, realizzato sulla base di diari di reparti dell’Honved, l’esercito magiaro, oltre a corrispondenze giornalistiche, memorie e testimonianze di combattenti delle armate delle due corone dell’Impero: Austria e Ungheria.
La prima parte riproduce un libro, Krieg im Stein (Guerra nella pietra), pubblicato nel 1936 a Berlino, da un autore di parte austriaca, Wilhelm Czermak, di cui non si sa molto, al di là della constatazione che aveva preso parte ad alcune, se non a tutte le vicende belliche narrate. L’impressione, pur senza dati certi, è che abbia fatto parte di qualche importante comando, forse a Gorizia. Non è un diario di guerra, quanto
“un ripensamento di avvenimenti grandiosi e dolorosi”
un tributo all’esercito austroungarico e ai suoi caduti, che si sottrae però alla denigrazione dell’avversario, tanto in voga oltre il Brennero, anzi non perde occasione di riconoscere agli italiani, in particolare ai fanti, le stesse sofferenze ed eroismi. Sembra di ritrovare lo spirito cavalleresco che si coglie nei libri del bravo Fritz Weber.
Il fronte dell’Isonzo fu il teatro bellico che per quasi due anni e mezzo espresse l’essenza stessa di quella guerra: la “trincea inferno”, per i difensori non meno che per gli attaccanti. Il Carso incarnò il conflitto, nella sua manifestazione tanto crudele e lontana da ogni precedente. Vi furono sperimentati per la prima volta i gas sul fronte italiano, vi avvennero i primi bombardamenti di distruzione di ogni costruzione e annientamento di ogni forma di vita. Nei testi austro-ungarici ricorre spesso il paragone con le battaglie galiziane o polacche, decisamente non così estreme.
Czermak ha il merito di inquadrare chiaramente lo spazio ristretto in cui i due eserciti opposti furono costretti a operare. Il confine italo-austriaco misurava 450 km, ma i 6/7 erano d’alta montagna e impraticabili. Solo 1/7, non più di 55 km in linea d’aria tra il margine dei monti e il mare, si prestava a operazioni decisive, perché un’offensiva avrebbe colpito al cuore il nemico. Tuttavia, nemmeno in tutta la sua estensione questa zona di irruzione era adatta ad azioni offensive in grande stile. A Nord, tra Gorizia e Tolmino, l’attacco italiano doveva affrontare la valle profondamente incassata dell’Isonzo e l’Altopiano della Bainsizza privo d’acqua e strade, dove risultava molto arduo sostentare grandi masse di uomini. Sul residuo tratto di fronte di 40 km, si concentrarono inevitabilmente tutti i combattimenti decisivi.
Lungo questo piccolo settore, che si può percorrere a piedi in dodici ore, due grandi eserciti lottarono con accanimento crescente.
“Un caso unico nella storia dell’umanità per la ristrettezza dello spazio in cui furono condotti, per l’impiego dei mezzi bellici, per l’eroismo e le vittime che provocarono. Nessun teatro bellico in Europa ha presentato condizioni simili”.
Il più grande cimitero di guerra si trova all’estremità orientale della pianura dell’Alta Italia, sulle rive dell’Isonzo, sui pendii e gli altopiani del Carso, più grande persino di Verdun, sostiene Czermak. Ma il cannone, che vi risuonò senza interruzione, non veniva sentito in Germania, troppo presa dagli avvenimenti a ovest ed est. Così sfuggì ai tedeschi che per 29 mesi, in quella fascia meridionale si lottò per la vittoria o l’annientamento. Non compresero che le battaglie sempre più aspre riguardavano il destino tedesco non meno di quello dei due stati i cui soldati si massacravano .
Dove l’autore austriaco esagera è nel sopravvalutare la nostra superiorità materiale. Mentre si può accettare di aver schierato più combattenti - la difensiva non pretendeva grandi masse austroungariche - gli armamenti pesanti imperiali sono rimasti migliori di quelli italiani per gran parte della guerra.
Resta la verità incontrovertibile del “terreno intriso di sangue”. Perfino dalle foto risalta la pietra carsica, forata, bucherellata, che sotto i colpi si trasformava a sua volta in schegge micidiali quanto quelle dei proiettili frammentati dell’artiglieria. Pronte a fare morti su morti.
L'inferno di pietra. Austriaci ed ungheresi sul Carso
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