Marabbecca
- Autore: Viola Di Grado
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: La nave di Teseo
- Anno di pubblicazione: 2024
È una Sicilia fatta di buio quella che fa da sfondo a Marabbecca di Viola Di Grado (La nave di Teseo, 2024). La terra del sole diventa il regno dell’ombra dove dilaga una “luce luttuosa”, densa di pensieri irrequieti, l’acqua sporca scorre in rigagnoli putridi lungo le strade e piove cenere dal cielo. Persino il mare appare lontano, remoto, “incorniciato dalla finestra come una creatura defunta nella sua bara”. Il potere trasformativo delle parole raggiunge la massima potenza modificando la realtà stessa delle cose: il calore siciliano, i bei frutti maturi e succosi, i panorami soleggiati da cartolina si tramutano nel loro contrario, diventando luoghi oppressivi e opprimenti sopraffatti dall’afa “mortifera” dove persone “ossute” vagano come fantasmi con un’espressione “sfinita”.
La Sicilia cambia volto, diventa un luogo drammatico, cupo - e il cuore di questo buio è una figura che trae origine direttamente dalle leggende del folclore isolano: la Marabbecca.
Questa creatura spaventosa vive nei pozzi ed è la rappresentazione stessa dell’oscurità; nessuno conosce il suo aspetto, ma è noto il suo tremendo potere. La Marabbecca trasforma tutto in nulla, basta guardarla negli occhi per smettere di esistere. Pare che l’origine della leggenda sia dovuta a motivazioni pratiche e abbia uno scopo salvavita: questa creatura demoniaca fu inventata per tenere i bambini lontani dai pozzi – numerosi e spesso tenuti scoperti nella campagna siciliana – ed evitare che ci finissero dentro.
Nel romanzo di Viola Di Grado la Marabbecca perde il suo alone mitologico, si spoglia dei residui della leggenda popolare per diventare rappresentazione stessa dell’inconscio. Questa terribile figura, che dà il titolo al libro, in realtà non appare mai nella storia, viene soltanto nominata; eppure, a ben vedere, è sempre presente.
Tutto ha inizio nel peggiore dei modi, ovvero con un dramma, nello specifico un incidente d’auto. L’incidente ha una vittima: Igor, che finisce in coma, mentre la sua fidanzata, Clotilde, che era alla guida, se la cava apparentemente soltanto con un braccio rotto. È Clotilde a narrare la storia dal suo punto di vista, con uno sguardo estraniato ed estraniante.
Ricoverata in una stanza d’ospedale color baby pink tramite numerosi flashback ricostruisce la dinamica dell’incidente: a causarlo sarebbe stata una ragazza, Angelica, comparsa all’improvviso sulla carreggiata. La giovane, bionda e dal viso angelico come il suo nome, si materializza nella vita di Clotilde venendo spesso a farle visita e portandole dei fiori.
Clotilde ne è come soggiogata, è completamente rapita dalla sua presenza; ben presto si trova ad attenderla e a desiderarla. Nel frattempo scopriamo che Igor, ricoverato nella stanza accanto, era un uomo violento, un aguzzino che tormentava Clotilde picchiandola e usandole una violenza psicologica costante. Dopo l’idillio dei primi tempi – “l’amore all’inizio è solo stupore” – lei si è trovata a comprendere che il “suo amore era una bugia”. Ora, nella stanza color pony, Clotilde si ritrova a sperare che Igor non si risvegli più, che Igor muoia; ma lui, imprevedibilmente si risveglia, proprio mentre lei sta vivendo una nuova storia d’amore con Angelica. Da questo momento la narrazione sembra cambiare registro, prende una deriva onirica che sfocia nell’incubo.
Igor è ancora vivo, ma non è più lo stesso di prima: ha subito una grave lesione cerebrale che lo ha reso fragile e indifeso, piagnucolante e bisognoso come un bambino appena nato. Non è più in grado di badare a sé stesso e, inaspettatamente, sarà proprio Clotilde a prendersene cura portandolo a vivere nella casa-voliera, piena di gabbie e uccelli variopinti, dove vive – come la regina del suo spettrale e sudicio castello – la bella ed evanescente Angelica.
Igor ora appare come una creatura mostruosa, una sorta di “Adamo sordido e decerebrato”, nient’altro che “reliquie di un uomo che stava incagliato tra la vita e qualcos’altro”, eppure non è più l’uomo violento e consapevole di un tempo, da “amare e da temere”: o forse sì? La sua si rivela essere una “furia nebbiosa”, una violenza primigenia e quasi inconsapevole da addomesticare con una museruola.
Marabbecca di Viola Di Grado da questo punto in poi diventa “un sogno nel buio”, stralunato e fuorviante come un film di David Lynch, e in ultima analisi si configura come un’indagine psicoanalitica sul male: qual è la natura effettiva dell’essere umano? Siamo votati al male o al bene? Homo homini lupus, diceva Thomas Hobbes per spiegare la natura intimamente egoistica della “belva” umana: “l’uomo per l’uomo è un lupo”, poiché mira solo al soddisfacimento dei propri bisogni e dei propri desideri, nello stato di natura è governato da una pulsione sovrana che è l’istinto di sopravvivenza.
La Marabbecca dunque esce dal buio indeterminato della leggenda popolare e si concretizza: assume le sembianze di ciascun personaggio di questa oscura triade, diventa dapprima Angelica, poi Igor e, infine, Clotilde.
L’inquietudine, che scandisce la lettura e via via si amplifica con il procedere delle pagine raggiungendo nel finale una climax, è data dalla scelta accurata di termini ed aggettivi, dalla miscela sapiente delle parole. Viola Di Grado affila la scrittura come un coltello, la rende tagliente e ipnotica, capace di scavare nel profondo sino a ferire e al contempo impossibile da abbandonare.
Marabbecca si legge senza tregua, senza prendere respiro come in apnea, anche quando la narrazione diventa disturbante e a tratti contraddittoria, persino quando la protagonista ci mente. Perché è palese che Clotilde mente, è una perfetta narratrice inattendibile, degna erede di Zeno Cosini, come da tempo non ne capitavano nella letteratura italiana. “Ho mentito”, è la frase che scandisce la narrazione provocando un comprensibile smarrimento nel lettore che, d’improvviso, si trova a mettere in discussione tutto quanto ha letto fino a quel momento – dov’è la verità? Se la protagonista stessa mente di chi possiamo fidarci? – nonostante tutto si continua a procedere nella storia, a fidarsi delle parole, assaporandole e inghiottendole come un veleno.
La bellezza di certe storie è racchiusa nel loro mistero, deriva dal fatto che non si possono spiegare e forse nemmeno vogliono essere spiegate; cercare una soluzione è vano perché spezzerebbe il loro incanto, guasterebbe la loro atmosfera, come cercare di descrivere a parole l’emozione e la commozione che un sogno ci ha suscitato interrompendosi appena prima del risveglio.
Marabbecca è un romanzo fatto d’ombra, evanescente e imprendibile come la creatura malefica nata dalla leggenda. Può essere letto in molti modi: come un’analisi sulla natura del Male; come una riflessione sul dolore e la ricerca della felicità; come la fenomenologia di un amore tossico; oppure come il racconto di un trauma. Sono innumerevoli le ferite che si intrecciano nel corso della trama, solcano la pagina come cicatrici nelle quali tutti possiamo riconoscerci, poiché sono ciò che ci rende umani. La Marabbecca, infine, assume i contorni di una rappresentazione dell’inconscio, di una forma di buio personale che davvero abita nel fondo – nel pozzo? – di ognuno.
La contrapposizione luce/ombra ritorna come una costante nei romanzi di Viola Di Grado e questa visione di buio non uniforme, di “buio personale” che è all’origine di Marabbecca era già presente, a ben vedere, in un altro romanzo dell’autrice, Fuoco al cielo (La nave di Teseo, 2019), dove la rivelazione era affidata, non a caso, a una donna divenuta cieca:
Voi che ci vedete avete tutti lo stesso mondo, ragazzina, la stessa luce e lo stesso buio, invece ognuno di noi ha il proprio buio, ognuno il suo, hai capito ragazzina?
La Sicilia oscura, “isola di matti, di mistici, di criminali”, creata dalla scrittura di Viola Di Grado è un’altra metamorfosi della Marabbecca. È la terra dell’infanzia, dalla quale le persone fuggono per crescere: la fuga è un destino obbligato, poiché la Sicilia è un utero da lasciare, chi resta – come Clotilde – diventa di pietra, una disgrazia, “una ferita ambulante”, il nulla ingoiato dalla Marabbecca.
I genitori che ti vogliono bene ti dicono: scappa dall’isola, scappa. Come se la Sicilia fosse un utero da lasciare. Altrimenti finisci come quei feti chiusi nei corpi che, senza nascere, diventano di pietra.
Come suggerisce la suggestiva immagine di copertina del libro, ideata dalla scrittrice stessa, forse infine la Marabbecca non è che la “voliera della mente”. Nell’immagine vediamo una donna vestita di rosso carminio in piedi sulla cima della scogliera: il suo profilo è ritratto di spalle, come quello del celebre Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, la sua testa è prigioniera di una gabbia per uccelli – una voliera, appunto. Non capiamo se la donna stia contemplando l’orizzonte, oppure se sia sul punto di buttarsi, pronta ad annegare tra i flutti del mare tempestoso. L’immagine stessa racchiude l’enigma, proprio come un dipinto di Magritte, e come il romanzo di Viola Di Grado che si nutre del suo mistero.
La figura del padre scomparso ha un ruolo centrale nel romanzo, sebbene passi spesso in secondo piano rispetto all’intricata storia narrata; ma è un personaggio da non sottovalutare, la cui importanza si rivela nel potente finale e alla quale sono dedicate alcune delle pagine più belle del libro.
Mentire ti allontana dalle cose che non puoi salvare. È morto così, mio padre, da solo, nella sua vaghezza ermetica. Nel suo mondo di nuvole, di penombra, di parole scritte fatiscenti.
Tutta la letteratura è una menzogna, in fondo: ma è una bugia buona, scritta a fin di bene, nel tentativo estremo di spiegare l’incomprensibile e dare una forma narrativa alla vita che pure non ha senso narrativo.
Dunque, è la letteratura la vera Marabbecca? È l’inconscio che definisce le nostre scelte, che orienta i nostri sentimenti? Oppure è il padre morto di Clotilde, la cui assenza ha fatto precipitare la protagonista nel pozzo? La Marabbecca è il “buio personale” del trauma, il baratro del lutto?
La verità è che non c’è una verità e, se esiste, è “pervasa di silenzio” e forse è giusto così.
Marabbecca
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