Qui pro quo
- Autore: Gesualdo Bufalino
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
"Qui pro quo" è il romanzo che Gesualdo Bufalino pubblicò nel 1991 per i tipi della casa editrice Bompiani. Già nel risvolto di copertina, probabilmente curato dallo stesso autore, è descritta, in una sorta di "bugiardino" assunto come titolo, l’architettura dell’opera con l’uso di tre parole chiave (“Genere”, “Argomento”, “Intenzioni”). Alla prima voce, viene detto che si tratta di “un’escursione domenicale nei territori del giallo”. Un puro divertissement creativo, dunque, che inquieta per la frantumazione della verità:
“come quando si vedono negli specchi d’un lunapark moltiplicarsi e contraddirsi le maschere della ragione”.
L’argomento, che si svolge con notevole carica ironica, è così sintetizzato:
“la morte di un editore, dovuta non si sa se a frode o a disgrazia, nella sua casa delle vacanze. Ne segue un’indagine che chiama in causa tutti gli ospiti e che la vittima stessa, attraverso postume rivelazioni, sembra voler dirigere in prima persona. Finché la sua segretaria, una nubile di poche grazie e di molte virtù, risolve o crede di risolvere il caso”.
E’ la terza “voce” a puntualizzare il piacere della scrittura come terapia, le “ingegnerie” dell’intreccio, nonché l’intrattenimento dei lettori con “burle e trucchi, personaggi e macchiette rigorosamente incredibili”.
Impreziosisce lo scritto la riproduzione di pitture, stampe e disegni di artisti vari, indicati alla fine del libro (da Topor a Schiele, a Klee), che coerentemente lo illustrano con l’ausilio di coerenti frasi tratte dal medesimo. Senza cedere alla tentazione di sunteggiarlo, diciamo subito che il geniale scrittore di Comiso, nel corso della conversazione tra l’editore e alcuni ospiti, fa dire a costui:
“Il fatto è che l’uomo sin dall’età delle caverne nel disbrigo d’ogni sua pratica di sopravvivenza, dal coito alla caccia, s’é sempre ritrovato attore d’una recita in tre tempi, di cui il primo comprende un disagio, il secondo un agone, l’ultimo un appagamento. La stessa dialettica di oscurità, tensione e luce che mi pare intrinseca del giallo…”
Questa la natura dell’indagine: verificare o falsificare un’angoscia per scongiurarla. L’evento che a posteriori rende l’assassinato denunciante dell’omicidio perpetrato ai suoi danni è enigmatico, pirandellianamente basandosi sullo scambio di persona. A differenza, in sostanza, degli altri gialli è qui il cadavere a fornire testimonianze con l’abito dello “spettro vivente”. A interessarsi della faccenda è Currò: il commissario cinquantenne, lettore di buone letture, dall’atteggiamento tra lo sfiduciato e il furbo non arresosi del tutto ai logorii del mestiere. Così egli si mostra alla segretaria del presunto ucciso, scrittrice di gialli, alla quale il poliziotto si appoggia nella conduzione degli accertamenti. Gli scritti messi a disposizione del morto parlano della dinamica del delitto e contengono una singolare ammissione:
“Morirò ucciso e del mio assassinio sarò stato io l’istigatore e il responsabile primo”.
Per districare l’intreccio sono prese in esame tante piste e distinguerne quella giusta. Fra gli interrogativi ne spicca uno: l’omicidio era soltanto un suicidio? L’epilogo, pressoché metafisico e filosofico, verte sull’imprendibilità della verità, affiorando “le incertezze della certezza”: soltanto ipotesi strambe viste di volta in volta come “verità”, come “errore”, come “delirio”. Ogni conoscenza poggia sull’ovvio e viceversa: su un “qui pro quo” che fa subentrare lo sconforto, l’amaro in bocca al mancato svelamento.
Qui pro quo
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