L’amaro miele
- Autore: Gesualdo Bufalino
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Einaudi
La raccolta poetica “L’amaro miele” di Gesualdo Bufalino, pubblicata da Einaudi nel 1982, fu ristampata dallo stesso editore nel 1989 con l’aggiunta di trenta poesie desunte da tre quaderni scritti tra il ’39 e il ’54. Fatta eccezione di alcuni, la silloge comprende componimenti composti fra il 1944 e il 1954 e suddivisi in sezioni ciascuna delle quali reca l’indicazione del periodo di riferimento.
Il nostro autore, traduttore di Baudelaire e di Toulet, nasce dunque come poeta per diventare prosatore; ai versi, timbrati dalla musicalità delle parole, egli affida in plurimi percorsi la complessità dei moti dell’animo su argomenti quali: la guerra e la sua forza sterminatrice; la vacuità e le illusioni della vita; la bellezza dell’amore; la tragicità della malattia e della morte; la memoria di affetti; il ricordo della giovinezza e il fascino della Sicilia, pur non ignorandone gli aspetti inquietanti.
Il titolo dell’opera indica l’ossimoro dell’esistenza: sapori gustosi indubbiamente quelli del vivere, ma che nel contempo lasciano l’amaro in bocca per il dolore umano e per l’azione impietosa del tempo nella sua corsa verso il nulla.
Nota dominante l’intimismo introspettivo: soprattutto prevale il senso della sconfitta che si snoda lungo le stazioni di una “Via Crucis” e s’apre all’attesa d’una voce notturna: “smaniosa”, “calda”, “corrotta”. A caratterizzare il dualismo irriducibile d’amore e di morte sono rispettivamente le liriche: “Esperide” e “Lapide del bambino”. Nella prima, che evoca l’atmosfera dei lirici greci (quella saffica, in particolare), l’ineluttabilità dell’amore, che è inebriante come il vino nero, veste di seduzione in una notte di serenate, la quale genera a sua volta desideri nell’orto di medievale memoria protetto dallo sguardo di estranei. Ma è la morte, l’implacabile avversario, ad imporre la sua presenza: irrompe improvvisa nella condizione umana e, servendosi della malattia, corrompe perfino l’innocenza infantile. Soltanto la memoria può sottrarre come per magia al ritmo travolgente del tempo: il ricordare si veste così della bellezza evocativa nelle più struggenti liriche da cui affiorano nostalgie intessute d’affetti e di incantamento per le diverse sfaccettature della sua Sicilia: martoriata sì, ma luminosamente bella in modo indissolubilmente fisico e spirituale. Il componimento intitolato
“Dintorni di Camarina”, lembo di terra marina del territorio ragusano cui approdarono gli antichi coloni siracusani, è significativa: i dati sensoriali si fanno colore e suono. L’io poetico è l’aedo, cantore d’una composta e armoniosa natura che fa ritrovare l’unità di verità e di sentimento attraverso un’ampia tavolozza cromatica: il giallo dei girasoli, il rosso delle nuvole, il verde dell’uliva in una visuale attraversata dal soffio del vento, portatore di particolari profumi.
L’inquietudine metafisica è animata dalla ricerca di Dio. Sincero, non retorico, il bisogno insopprimibile di trovarlo in ascolto e di somigliare al Cristo nel patimento. È in “Altri versi scritti sul muro” che si ritrova una sorta non del tutto ortodossa di “Imitatio Christi”. Giobbico il senso d’abbandono che egli, tra rassegnazione e rivolta e orgoglio, sperimenta e che infine lo catapulta nel disordine, nell’insensatezza, nel tragico. La struggente invocazione è perdente nello scacco più assoluto. Alle sillabe sacre del nulla in fondo conduce la tramatura dell’universo poetico bufaliniano il quale, col sapiente ritmo dell’endecasillabo, si distende nel canto più di lutto che di luce.
L'amaro miele
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