Argo il cieco ovvero I sogni della memoria
- Autore: Gesualdo Bufalino
- Categoria: Narrativa Italiana
Il romanzo di Bufalino “Argo il cieco ovvero I sogni della memoria” (Sellerio, Palermo, 1984) ha come epigrafe in latino il verso di Ovidio che, tratto da “Le Metamorfosi” (I, 720-21), parla della morte di Argo, la mitologica bestia priva ormai di quella luce che teneva desti i suoi cento occhi. Metafora, dunque, l’accecamento che richiama la zona oscura del passato. Su di essa, però, agisce la memoria, scrutandola per farne nitidamente emergere ricordi come fossero sogni e le loro menzogne. Nella “Locandina delle intenzioni”, che introduce alla narrazione, un breve, ma incisivo scritto insiste sul motivo della scrittura come terapia dell’animo:
“Perduta per timidezza l’occasione di morire, uno scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro felice. Ne chiede l’argomento, secondo l’uso, ai cento occhi della memoria e ai solluccheri di gioventù”.
La storia, consistente nelle rievocazioni pressoché diaristiche di un professore di lettere, è vissuta con riferimento particolare all’estate del 1951. “Bambino vecchio” egli si definisce nel primo capitolo anche se l’invecchiamento, causato dalla vita e dai libri, non gli impedisce di guardare al mondo con stupore. L’io narrante, “amanuense di stesso”, si rivisita nella splendida città di Modica di cui tesse un manto d’incanto:
“un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come Cavalleggeri del Re. (…). Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera”.
Muovono da questa cittadina degli Iblei le prime esperienze di insegnamento al liceo, nonché i momenti trascorsi con la goliardia degli anni giovanili che, tra verità e menzogna, gli fa evocare deliziose figure femminili: da Maria Venera a Mariccia a Isolina. Iniziazione all’amore? Alla fine, sarà l’autunno a portare via ogni cosa. La giovinezza, soprattutto. E’ Maria Venera la ragazza attorno a cui ruota la trama sfolgorante di pietre preziose: una visione, una giovane bruna più bruna di tutte le altre che appartiene a una famiglia di nobiltà decaduta. Alla fine, lei però diventa
“una macchinetta di umori improvvisi, curiosamente cuciti a una cupidigia di frode”.
Accattivanti le riflessioni, discordanti tra loro, sull’amore non corrisposto e sulle ragioni per cui si possono amare più donne contemporaneamente,viste come una sola immagine del desiderio nel canovaccio della vita. Anche Cecilia, piccola lodigiana e mercenaria in trasferta che viene filtrata nella dea Persefone, sta al centro del suo cuore. E’ la ricerca della felicità che gli sta a cuore, ed essa, in definitiva, si concretizza nell’inseguimento della bellezza femminile. Tra i diversi personaggi, oltre al magnifico ritratto di Don Alvise, nonno di Maria Venera, spicca la figura dell’amico, poeta e filosofo, Iaccarino con cui vive nella stessa pensione. Entrambi insegnanti, ma diversi l’uno dall’altro, tant’è che Bufalino lo presenta come il suo doppio per i caratteri opposti della loro personalità.
La raffinata scrittura, ricca di metafore e di ossimori, d’allitterazioni e di colte citazioni, utilizza il dialogo tra il lettore e l’autore e non esclude il taglio geo-antropico del luogo. Essa circola nell’animo e mostra miraggi scherzosi, soffusi di ironica malinconia tra “parole inventate” e “tempo sospeso”.
Argo il cieco ovvero i sogni della memoria
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