1912+1
- Autore: Leonardo Sciascia
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Adelphi
1912+1 (Adelphi, 1986) prende il titolo da una dedica scaramantica di D’Annunzio su una copia del suo Martyre de Saint Sébastian; come epigrafe reca quattro versi del componimento La Passeggiata di Palazzeschi (i primi due e gli ultimi due versi), come a volere indicare un procedere per diletto con il lettore di qua e di là in un breve tratto della cronaca italiana. In appendice si trovano le Note in cui Sciascia, dichiarando l’intento ludico, rivela le fonti.
Non è da trascurare ciò che dice su questo libro scritto come un omaggio a Pirandello, ricorrendo il cinquantenario della morte. Chiedendosi quale possa essere il trait d’union tra Manzoni e Pirandello, "quasi ugualmente amati", brevemente risponde:
"È forse Pascal; un Pascal da Manzoni e da Pirandello diversamente letto e con diversissimi esiti. Le ragioni del cuore che la ragione vuol trascegliere e annettersi, per Manzoni; le stesse ragioni che sfuggono alla ragione e si fondono allo spavento cosmico, per Pirandello".
Il testo, che concerne un famoso caso giudiziario del primo Novecento, è una lunga “cronachetta”; divagante e centrifugo, si apre al gusto dell’ipercitazione e al fascino della scrittura d’ambiente. Siamo nell’atmosfera delle imprese belliche in Cirenaica, quando echeggiavano Le canzoni delle gesta d’oltremare che D’Annunzio mandava da Arcachon al “Corriere della sera”. Il contesto, ampiamente rappresentato, è quello del possesso coloniale, mondanamente borghese, in cui campeggiano le figure di Guido da Verona, di Mussolini direttore dell’"Avanti!", di D’annunzio coi suoi eroici furori.
Il riferimento va a opere misconosciute, nonché a citazioni che spaziano da Léon Blum a Jaufré Rudel, da Giovanni Ameglio ad Aleardo Aleardi al "mite Pascoli" e al non expedit di Pio IX fino a don Luigi Sturzo. Sciascia è attento a tratteggiare il quadro socio-culturale.
Del 1913, anno appena precedente allo scoppio della Grande Guerra, mostra gli eventi più eclatanti. Il 26 ottobre si vota per il parlamento del Regno, il primo suffragio universale maschile; in virtù del patto del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni i cattolici, cui è garantita la solidità dell’istituto familiare minacciata dalla folle corsa verso la felicità, rientrano nella vita politica. Parla anche della ricomparsa, a Firenze, della Gioconda, rubata al Louvre due anni prima, il cui sorriso ha analogie con quello della contessa Tiepolo, protagonista della vicenda. Erano gli anni del costume da “belle époque” e della moda del tango arrivato da Parigi, del futurismo esaltato da Marinetti, aperto al dinamismo, alla forza virile, all’azione sostenuta dalla volontà.
Un fatto di cronaca nera accade l’8 novembre 1913 e Sciascia lo studia nei panni dell’investigatore, mescolando documentazione e narrazione. La contessa Maria Tiepolo uccide il bersagliere di leva Quintilio Polimanti, giovane aitante con punte di sciocchezza che è l’attendente del marito, il capitano del regio esercito Carlo Ferruccio Oggioni. Ha ricevuto le carte processuali dall’amico Franco Sciardelli e vi ragiona, ponendo a confronto le tesi della difesa e dell’accusa. Legittima difesa per difendere l’onore familiare oppure omicidio premeditato? Delitto d’onore o passionale? Persuaso che gli istituti giuridici prendono “forma e contenuto” nell’ambito di uno specifico tessuto sociale, anche con lo sguardo dello psicologo il nostro scrittore punta l’attenzione alle testimonianze di amici, di conoscenti, di cameriere e familiari. Esamina le perizie, le arringhe degli avvocati e i resoconti dei cronisti, maturando la convinzione che i dati mostrano incongruenze e contraddizioni.
Il processo comincia alla Corte d’Assisi di Oneglia, il 29 aprile del 1914. Oltre mille le lettere anonime che giungono in tribunale, mentre i diffusissimi pregiudizi sociali hanno il sopravvento sull’esercizio della giustizia:
"Che un bersagliere fosse stato preda di un travolgente amore, passi […]. Ma che la moglie di un capitano vi avesse corrisposto, non era da ammettere, bisognava fugarne anche il sospetto".
Nel corso del dibattimento avvince la scena della seduzione secondo la testimonianza dello Strinchini, conterraneo e camerata del Polimanti, raccontata con il piacere di certi dettagli: ne viene fuori un bozzetto di arte amatoria felicemente riuscito, un resoconto da preoccupare gli avvocati di difesa. In quel momento eroico attraversato da fremiti patriottici e militaristi, bisognava fare di tutto per sollevare l’esercito da un’accusa infamante. Le arringhe della difesa e dell’accusa, che mostrano indizi dimostrativi dell’una e dell’altra verità, durano dal 26 maggio al 2 giugno.
Il processo è fatto di stravaganti deposizioni, di goffi e improvvisati periti, di esilaranti interventi oratori che sono di per sé teatro:
"La grande attesa era per l’arringa dell’avvocato Raimondo: che parlò per ultimo, e per ore. E non deluse; commosse ed entusiasmò, anzi. Barba e chioma tempestosamente agitate dal vento del suo eloquio, appunto recitò una di quelle arringhe piene di vento su cui allora si misurava la valentìa di un avvocato; e di un uomo politico ancora oggi (di un uomo politico che si affaccia a parlare in televisione, qualche ora dopo nello spettatore televisivo resta la sola memoria che “ha parlato bene”, se “ha parlato bene”: ed è inutile chiedere di che, poiché tanto meglio ha parlato se di nulla)".
È come una farsa l’oratoria della difesa, provoca addirittura il pianto. Piange il pubblico e applaude. Piange l’imputata. E piange il Presidente della Corte:
“Che scampanellò a far cessare l’applauso: ma lacrimando”.
Donna galante la contessa, assolta infine per ragioni di "decenza nazionale": ha sì sparato, ma solo per autodifesa e per salvaguardare l’onore del marito. A seguito della sentenza, discussa in tutta Italia più in disapprovazione che in consenso, viene immediatamente scarcerata. Si realizza così il massimo trionfo della borghesia che si autotutela per conservarsi.
Il racconto è fitto di divagazioni. Anche sull’esistenza di Dio Sciascia divaga per far luce sul suo sentire religioso. Quasi a conclusione, afferma:
"Il guaio del vivere e del morire degli uomini è che Dio c’è, ma se ne saprà da morti, meno di quanto se ne sappia da vivi: poiché da vivi, come diceva Borges, almeno ne facciamo tema della migliore letteratura fantastica […]. Non facciamo, da vivi, che pronunciare invano il nome di Dio. Da morti, forse non lo pronunceremo più. E crediamo, da vivi, che parole come “verità”, “giustizia”, “poesia”, lo scavarle dentro di noi e nei fatti dei nostri simili, ce lo avvicinino...".
Potremmo dirlo borgesiano il suo credo: è il Dio che si rivela nella migliore letteratura fantastica e si risolve nella parola “giustizia”. Sulla scorta di un racconto di Aldous Huxley, Sciascia fa capire la sua convinzione: la contessa ha premeditato l’uccisione del suo amante. Un omicidio passionale, dunque, coperto dall’apologia sacrale della famiglia di cui il Paese era ossessionato.
1912 più 1
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